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Sabato, 27 Aprile 2024
Cronaca Tommaso Natale

"E' del boss Giulio Caporrimo", confiscata ditta specializzata in forniture per bar e ristoranti

Passa allo Stato l'azienda "Il fornaio" di viale Strasburgo dal valore di un milione e mezzo di euro. Fu sequestrata dai carabinieri nel 2016 a una coppia e vendeva arredi e attrezzature per locali. Sulla scorta di diverse intercettazioni, la Cassazione ha stabilito che in realtà era del mafioso

Passa definitivamente allo Stato l'azienda "Il fornaio" specializzata in prodotti per bar e nel settore della ristorazione, dagli arredi alle attrezzature, e dal valore di un milione e mezzo di euro, con sede in viale Strasburgo. La ditta - come adesso ha sancito anche la sesta sezione della Cassazione - gestita formalmente dalla "Tirenna Pietro snc" era in realtà del boss di Tommaso Natale, Giulio Caporrimo. 

"Investimento impossibile senza i soldi del boss"

L'azienda era stata sequestrata nel 2016 dai carabinieri ed era intestata a Pietro Tirenna e alla moglie. In quella fase aveva anche affittato locali e alcune attrezzature al bar "Recupero" quando si era traferito in viale Strasburgo e che era totalmente estraneo all'inchiesta. A Caporrimo si era arrivati attraverso una serie di intercettazioni "dalle quali è emerso l'interesse personale e diretto di Caporrimo all'andamento degli affari nel panificio gestito dalla Tirenna Pietro snc", come aveva stabilito la sezione Misure di prevenzione del tribunale, che riteneva pure "accertata la sproporzione tra il valore dell'investimento societario e l'ammontare delle risorse finanziare dei coniugi Tirenna, la cui capacità reddituale era talmente modesta da garantire a fatica il sostentamento minimo del nucleo famigliare". Ecco perché, secondo i giudici, "soltanto l'intervento economico di Caporrimo, operato mediante l'impiego di denaro derivante dagli illeciti proventi del delitto di associazione mafiosa avesse reso possibile la costituzione della società e l'avvio dell'attività commerciale".

La difesa: "Nessuna cointeressenza"

Queste tesi sono state poi confermate dalla Corte d'appello, ma la difesa dei Tirenna le ha sempre contestate, facendo tra l'altro riferimento ad un'intercettazione tra Caporrimo e la moglie, dalla quale sarebbe emerso che il boss "sarebbe stato creditore di Tirenna, senza alcuna cointeressenza nell'attività". Tanto che, sosteneva l'avvocato, non sarebbero stati intercettati colloqui diretti tra il boss e Tirenna.

Le intercettazioni: "Caporrimo contestava un'assunzione"

Il collegio della Suprema Corte presieduto da Anna Criscuolo ha ritenuto invece pienamente fondate le iniziali tesi investigative. In particolare i giudici si soffermano su un'intercettazione del 9 giugno 2010 in cui "Caporrimo rappresentava al cognato Marco Tirenna, cugino del titolare della società, la sua contrarietà per l'avvenuta assunzione nel panificio del fratello di quest'ultimo, arrivando ad affermare che avrebbe costretto Tirenna ad estrometterlo, nonché che lo stesso doveva assicurargli il pagamento di quanto dovuto. La pervasività di Caporrimo è ancor più evidente - dice la Cassazione - quando si lamenta che, una volta avviata la società con il suo denaro, Pietro Tirenna aveva consentito un'eccessiva ingerenza della moglie e del fratello, tanto che i proventi dell'attività erano stati devoluti ai famigliari anziché essere corrisposti a Caporrimo nel rispetto degli accordi presi".

"Se non mi pagni ti scanno!"

Un altro elemento per i giudici emerge dalla conversazione del 2 ottobre 2010 quando "Caporrimo aveva rappresentato a Marco Tirenna l'opportunità di convincere il cugino a pagare quanto dovuto, altrimenti lo avrebbe 'scannato'". In un'altra intercettazione, Caporrimo "invitava la moglie a non pagare il pane perché Tirenna era suo debitore" e per i giudici questo è "indice di un sottostante rapporto di sudditanza da parte di Tirenna".

"Redditi insufficienti per costituire la società"

Infine, la Cassazione si concentra sul profilo societario de "Il fornaio". La società è stata costituita nel 1999 e l'anno precedente Tirenna avrebbe "dichiarato redditi per soli 3.493,20 euro e la moglie non aveva neppure presentato la dichiarazione, così da potersi escludere che i coniugi potessero aver effettuato l'investimento societario grazie all'accumulo di risparmio".

La confisca

Per questi motivi la Suprema Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso di Tirenna e ha confermato definitivamente la confisca della società, ritenendola in realtà di Caporrimo. A gennaio il boss è finito nuovamente nei guai con l'inchiesta "Bivio" dei carabinieri, in cui emergeva anche il suo risentimento perché sarebbe stato messo da parte dai vertici del clan a favore di persone che riteneva non all'altezza. Caporrimo si era quindi trasferito a Firenze, dove è stato intercettato anche mentre parlava da solo.

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