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Mafia

Annientata la Cupola di Cosa nostra: arrivano 46 condanne, inflitti oltre 4 secoli di carcere

Si chiude in primo grado lo stralcio in abbreviato del processo nato dall'operazione "Cupola 2.0" messa a segno esattamente due anni fa. Gli inquirenti sventarono il tentativo di ricostituire la Commissione provinciale dopo la morte di Totò Riina e scoprirono decine di estorsioni. Assolti 9 imputati

E' sicuramente l'inchiesta antimafia più importante degli ultimi anni perché ha consentito di sventare un nuovo tentativo di ricostituire la Commissione provinciale di Cosa nostra dopo la morte del boss che ne era stato per più di un quarto di secolo il capo indiscusso, Totò Riina. Oggi, con la sentenza emessa per 55 imputati nell'aula bunker dell'Ucciardone dal gup Rosario Di Gioia, al termine del processo che si è svolto con il rito abbreviato, sono arrivate 46 condanne e 9 assoluzioni. In tutto sono stati inflitti 435 anni di carcere. Il giudice ha sostanzialmente accolto le richieste del procuratore Francesco Lo Voi, dell'aggiunto Salvatore De Luca e dei sostituti Amelia Luise, Francesca Mazzocco, Dario Scaletta, Gaspare Spedale e Bruno Brucoli, che avevano coordinato le indagini dei carabinieri e il maxiblitz "Cupola 2.0" messo a segno esattamente due anni fa, il 4 dicembre del 2018. Alla fine di gennaio, il 22, arrivarono altri arresti con l'operazione "Cupola 2.0 bis". I pm avevano chiesto oltre 7 secoli di carcere (precisamente 727 anni).

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Le condanne

Il dispositivo di 15 pagine è stato letto nell'aula in cui fu celebrato il Maxiprocesso intorno alle 14 e sono 46 i condannati. Ecco le pene che il giudice ha inflitto a ciascuno di loro, in rigoroso ordine alfabetico: Stefano Albanese 9 anni e 2 mesi, Filippo Annatelli 13 anni e 4 mesi, al pentito Filippo Bisconti 6 anni, Giuseppe Bonanno 5 anni e 8 mesi, Carmelo Cacocciola 7 anni, Giovanni Cancemi 8 anni, Francesco Caponetto 13 anni e 4 mesi, al pentito Francesco Colletti 6 anni e mezzo, Giovanna Comito un anno e 8 mesi (pena sospesa, è difesa dagli avvocati Alessandro Martorana e Giovanni Pecorella), Giuseppe Costa 9 anni, Maurizio Crinò 10 anni, Filippo Cusimano 9 anni e 4 mesi, Rubens D'Agostino 10 anni, Gregorio Di Giovanni 15 anni e 4 mesi, Filippo Di Pisa 8 anni e 8 mesi, Andrea Ferrante 8 anni, Salvatore Ferrante 2 anni e 8 mesi, Vincenzo Ganci 8 anni e 8 mesi, Michele Grasso 8 anni e 8 mesi, Leandro Greco 12 anni, Marco La Rosa 6 anni e 8 mesi, Gaetano Leto 12 anni e 8 mesi, Erasmo Lo Bello 12 anni, Calogero Lo Piccolo 27 anni (in continuazione), al pentito Sergio Macaluso 2 anni, Michele Madonia 8 anni e 8 mesi, Umberto Maiorana un anno e 8 mesi (pena sospesa), al pentito Domenico Mammi 2 anni, Giusto Francesco Mangiapane 8 anni, Matteo Maniscalco 6 anni e 8 mesi, Luigi Marino 6 anni e 8 mesi, Antonio Maranto 2 anni, Fabio Messicati Vitale 12 anni, Giovanni Salvatore Migliore 8 anni e 8 mesi, Settimo Mineo 16 anni, Salvatore Mirino 9 anni e 4 mesi, Domenico Nocilla 9 anni e 8 mesi, Salvatore Pispicia 12 anni, Gaspare Rizzuto 12 anni e 4 mesi, Michele Rubino 10 anni e 8 mesi, Giovanni Salerno 10 anni e mezzo, Salvatore Sciarabba 14 anni, Giuseppe Serio 13 anni e 4 mesi, Giovanni Sirchia 8 anni, Salvatore Sorrentino 12 anni e 8 mesi e Salvatore Troia 9 anni.

Le assoluzioni

Per altri 9 imputati, il gup ha deciso per l'assoluzione, scagionandoli quindi dalle accuse mosse dalla Procura. Si tratta prima di tutto del presunto boss di Ballarò, Massimo Mulè (difeso dagli avvocati Giovanni Castronovo e Marco Clementi) Giacomo Alaimo, Gioacchino Badagliacca, Giusto Giordano (difeso dall'avvocato Salvatore Gugino), Rosolino Mirabella (assistito dagli avvocati Castronovo e Silvana Tortorici), Andrea Mirino (difeso dall'avvocato Amalia Imbrociano), Nicolò Orlando (difeso dall'avvocato Domenico Cacocciola), Pietro Scafidi e Giusto Sucato (difeso dall'avvocato Domenico La Blasca).

L'imputato morto per Covid

Un altro imputato, Vincenzo Sucato, 76 anni, accusato di essere stato a capo del clan di Misilmeri e già condannato anni fa per mafia, è però deceduto nelle corso del processo. E' stato peraltro il primo detenuto morto per Covid in Italia, lo scorso primo aprile. Era recluso nel carcere della Dozza di Bologna e sul suo decesso è stata aperta un'inchiesta per omicidio colposo, in seguito alla denuncia della sua famiglia, difesa dall'avvocato Domenico La Blasca. Sucato era affetto da diverse patologie e dunque tra i soggetti altamente a rischio in caso di contagio da Coronavirus. Nonostante le richieste del suo legale, però, sarebbe stato lasciato in cella, dove poi aveva effittivamente contratto il virus.

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Il summit del 29 maggio 2018

Una catapecchia, raggiungibile percorrendo strade di campagne da viale Michelangelo, arredata con mobili vecchi e una tavola imbandita con dolci e cornetti. E' in questo posto - mai indivudato chiaramente dagli investigatori - che il 29 maggio di due anni fa, intorno a mezzogiorno, si sarebbe tenuto un importante summit, propedeutico alla ricostituzione della Cupola. Al "brunch" avrebbero partecipato Settimo Mineo, Leandro "Michele" Greco, Calogero Lo Piccolo, Gregorio Di Giovanni e Francesco Colletti. Decise di non andare, invece, un altro boss, Filippo Bisconti. I carabinieri hanno scoperto la riunione proprio intercettando Colletti che in macchina ne parlava con il suo autista Filippo Cusimano. Inoltre i cellulari dei partecipanti avrebbero smesso di mandare segnali proprio in concomitanza con l'incontro. Secondo la ricostruzione dell'accusa, dopo la morte di Riina (a novembre del 2017) i capi dei più importanti clan avrebbero deciso di riorganizzarsi e di riportare da Corleone alla città il centro nevralgico dell'organizzazione crinimale. 

Il pentito: "Una riunione importante tra dolci e cornetti..."

Pochi giorni dopo gli arresti, Colletti e Bisconti decisero di iniziare a collaborare con la giustizia. Non solo le loro dichiarazioni hanno confermato la ricostruzione dell'accusa, ma si riscontrano perfettamente a vicenda. Il summit è stato raccontato proprio da Colletti, che avrebbe ricevuto l'invito da Greco, nipote del "papa" di Cosa nostra: “Mi dice di farmi lasciare da solo in viale Michelangelo, all’altezza ‘Mondo Legno’, a mezzogiorno. Mi fermai, venne un motore ed era Sirchia Giovanni abbiamo fatto un bel po’ di strade di campagna, non so se quella zona è Aquino o Baida… non esisteva una persona. Colletti descrive poi il luogo: “Mobili vecchi, vecchia casa, molto vecchia” e dice che “ho trovato là dentro Settimo Mineo, già era seduto” e che “c’era un tavolo imbandito con dei dolci… Greco Michele era già a tavola… Dopo una mezz’oretta è venuto Lo Piccolo Calogero”. Conferma che Bisconti non arrivò mai, ma che tutti gli "uomini d'onore" lo aspettavano. E aspettando “abbiamo fatto questa specie di pranzo a base di cornetti e roba varia e si sono presi dei discorsi dell’importanza di questa riunione”.

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"Dobbiamo fare le cose serie"

Spiega ancora Colletti, “era prima di tutto per conoscerci per le persone che non ci conoscevamo…”, ma “si è parlato di regole, abbiamo posto delle regole… Il Greco prendeva spesso parola dicendo che dobbiamo fare le cose serie, dobbiamo organizzarci in modo che solo noi che ci riuniamo e ci riuniremo dobbiamo sapere le cose” e questo perché, fino a quel momento, “c’era molto disordine, di rimettere all’ordine, tutti i discorsi li dovevamo sapere, in quelle riunioni che se ne dovevano fare 6, 7, 8 l’anno, e le dovevamo fare una ciascuno… La prossima si doveva fare intorno a settembre”. 

"Non c'è più rispetto, non pagano il pizzo..."

Innumerevoli gli spunti dell'inchiesta "Cupola 2.0", che hanno anche rivelato - ancora una volta - gli affari di Cosa nostra, tra scommesse, droga e pizzo (ben 28 gli episodi estorsivi ricostruiti dagli inquirenti). E proprio su quest'ultimo tema le parole del boss di corso Calatafimi Filippo Annatelli sancivano una svolta senza precedenti. Per la prima volta, infatti, dalle intercettazioni si capive che i mafiosi, per via dei rischi sempre più elevati, avrebbero addirittura preferito non chiedere più il pizzo. “No! Non dobbiamo fare più niente!” diceva infatti a Gioacchino Badagliacca, a capo del clan di Rocca-Mezzomonreale. “Questi (gli imprenditori, ndr) arrivano, montano, ti guardano in faccia, ridono… a tipo se ne stanno fottendo ed è andata a finire qua, a tipo che non c’è più rispetto”. Il pagamento del pizzo per i due, infatti, era come una forma di “buona educazione”, che evidentemente in molti però non sono (più) disposti a rispettare. E’ per questo che Badagliacca concludeva: “Quello che pensavo come ragionamento, a me non mi viene più manco di dirgli niente a nessuno. Perché va a finire che a quello glielo dico, a questo non glielo dico ed allora quelli di fuori si fanno i fatti loro…”.

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