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Cronaca Arenella-Vergine Maria

Professionisti al servizio dei boss per riciclare capitali, pene ridotte in appello e 2 assoluzioni

Scagionati un ingegnere e il figlio del noto avvocato civilista ormai defunto, Marcello Marcatajo. Per gli altri imputati, tra cui tre appartenenti alla famiglia mafiosa dei Graziano, cade l'aggravante di aver favorito Cosa nostra

Professionisti - in particolare il noto civilista Marcello Marcatajo, ormai defunto - al servizio dei boss dell'Acquasanta per riciclare ingenti capitali accumulati illecitamente soprattutto con investimenti immobiliari. Era questa la tesi portata avanti dalla Procura nell'inchiesta "Cicero" del gennaio 2016 e che in primo grado, a novembre 2018, aveva retto in tribunale, portando ad 8 condanne. Oggi, invece, il verdetto è stato decisamente rivisto dalla Corte d'Appello che non solo ha assolto i professionisti coinvolti nel processo, ma ha del tutto escluso l'aggravante di aver favorito Cosa nostra per gli imputati.

Nello specifico, i giudici hann scagionato il figlio di Marcatajo, Giorgio, che era stato condannato a due anni e 10 mesi (è difeso dagli avvocati Valeria Minà e Franco Inzerillo), e l'ingegnere Francesco Cuccio, al quale il tribunale aveva inflitto 6 anni di reclusione (è assistito dagli avvocati Massimo Motisi e Baldassare Lauria). Per gli altri imputati, invece, le pene sono state ridotte, a cominciare dai tre appartenenti alla famiglia mafiosa dei Graziano: per Francesco Graziano la condanna passa da 14 anni e 2 mesi a 10 anni e 11 mesi, per Angelo da 6 anni a 4 anni e mezzo e per Vincenzo da 4 anni e 2 mesi a 3 anni e 9 mesi (sono difesi dagli avvocati Miria Rizzo, Leonardo Naimo, Marco e Valentina Clementi e Valerio Vianello). Ridotte le pene anche a Giuseppe ed Ignazio Messeri, da 2 anni e 9 mesi a testa a un anno e 3 mesi ciascuno (sono assistiti dall'avvocato Diego Di Stefano), e a Maria Virginia Inserillo, da un anno e mezzo a un anno e 2 mesi (è difesa dall'avvocato Loredana Lo Cascio).

Le accuse per gli imputati erano a vario titolo di riciclaggio, reimpiego di capitali illeciti, peculato ed intestazione fittizia di beni, aggravati dall'aver favorito da Cosa nostra. Aggravante che, come detto, i giudici d'appello hanno ritenuto insussistente. Le motivazioni della sentenza non sono ancora note, ma si può ipotizzare che se i Graziano davvero reinvestirono i loro capitali lo fecero per interessi personali e non per agevolare l'intero clan mafioso.

L'inchiesta della guardia di finanza partì da un pizzino in cui figurava il nome di Marcello Marcatajo ritrovato tra i documenti sequestrati a Graziano. Così furono avviate delle intercettazioni e, secondo l'accusa, l'avvocato si sarebbe prestato a stipulare una serie di compravendite immobiliari sia per conto dei boss Graziano che dei Galatolo. La conferma a quest'ultima tesi era arrivata anche dalle dichiarazioni rese da Vito Galatolo, ex rampollo del clan dell'Acquasanta poi diventato collaboratore di giustizia.

E' nell'ambito di questa inchiesta, peraltro, che Galatolo raccontò che dalla vendita di diversi box curata da Marcatajo si sarebbero ricavati 250 mila euro poi destinati all'acquisto del tritolo che avrebbe dovuto essere utilizzato per ammazzare il pm Nino Di Matteo. Esplosivo che, nonostante le ricerche, non è però mai stato ritrovato. In questi giorni, il piano di morte contro il magistrato è ritornato al centro della cronaca con le dichiarazioni di un nuovo pentito, Alfredo Geraci. Questi ha però riferito che il boss di Porta Nuova, Alessandro D'Ambrogio, all'epoca - cioè nel 2012 - non avrebbe creduto alla lettera che sarebbe stata inviata dal latitante Matteo Messina Denaro per disporre l'attentato, che comunque non avrebbe condiviso.
 

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