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I palermitani e il culto della morte: curiosità, tragedie e storie nascoste

Dal cantante Pino Marchese (trovato senza vita coi genitali in bocca) alla storia horror de "La vecchia dell'aceto". E andando indietro nel tempo come non ricordare i 200 morti del 1527 causati dal crollo improvviso del salone da ballo di Giorgio Bracco

Capisco che l’argomento non è tra i più allegri. Ma sono sicuro che quanto leggerete vi farà riflettere molto. So di essere banale, ma l’unica certezza che possiede l’essere umano al momento della nascita è proprio quella di morire. Persino il figlio di Dio, Gesù, è dovuto morire per potere risuscitare. Ma l’argomento di oggi è specifico e riguarda il rapporto, che nella storia, i palermitani hanno dimostrato di avere e, probabilmente in parte possiedono ancora, nei confronti della morte. Per chi come me è sulla quarantina o poco più, credo che sia indelebile il ricordo dei primi anni 80, con il terribile massacro fatto dalla mafia a Palermo, macabro e crudele.

Solo nel 1982, e chi vi scrive aveva appena cominciato ad andare a scuola, tra Palermo e provincia furono uccise almeno 200 persone e altrettante ne scomparvero. La chiamarono seconda guerra di Mafia, con vittime di tutti i tipi: poliziotti, magistrati, mafiosi, politici. A quella età molte cose non le capivo, ma guardando la copertina del giornale L’Ora, esposto all’edicola sotto casa mia, vedevo che ogni giorno c’era un morto. Ricordate? Questo da solo basterebbe ad avere fatto acquisire alla mia generazione, ed a quella precedente, una forma di quotidianità della morte violenta. Ma in realtà, se scaviamo un po’ nella nostra storia, troveremo delle radici profondissime che legano Palermo, e certamente la sua provincia, con questa dimestichezza con la morte, che a volte diventa quasi una affezione morbosa.

Se parliamo di attentati a Palermo la nostra memoria va, ancora una volta, al nostro recente passato. Eppure abbiamo più che dei semplici sospetti che uno dei più grossi attentati della storia d’Europa sia avvenuto proprio a Palermo. Il 30 maggio del 1527, in un palazzo di via del Celso, a poche centinaia di metri dalla Cattedrale, una dimora appartenente al pisano Giorgio Bracco si stava festeggiando il matrimonio di Giovanni Ventimiglia, marchese di Geraci, con Elisabetta di Moncada e La Grua, figlia del giustiziere di Sicilia. Nobili tra i più splendenti di Sicilia, non avrebbero potuto esimersi dall’invitare anche il vicerè Ettore Pignatelli e la nobiltà più influente della città. Il crollo improvviso del salone da ballo, causando 200 morti, appunto tra i nobili più importanti dell’isola, cambiò la mappa del potere nobiliare dell’epoca. Ai tempi fu registrato come incidente, anche se qualche dubbio sulla casualità del fattaccio deve essere venuto subito, tanto che ne nacque il modo di dire: “Il caso di Giorgio Bracco”. Con il senno di poi si potrebbe pensare che i mandanti siano stati i nobili pisani, fuggiti in massa a Palermo alla fine del ‘400 per evitare lo scontro con i fiorentini. Dinamici e intraprendenti, ma limitati dalle potenti ma poco produttive famiglie nobiliari siciliane, i pisani potrebbero avere risolto in un colpo solo, il problema dei loro antagonisti locali. Sterminandone una buona parte.

Ma andiamo indietro migliaia di anni, al tempo delle incisioni rupestri delle grotte dell’Addaura. Tra le tante incisioni, purtroppo non più visitabili dalla fine degli anni Novanta, per problemi di sicurezza, c’è la scena di alcuni uomini disposti a cerchio attorno a due persone che sembrano essere state incaprettate. A onor del vero non tutti gli studiosi sono concordi che si tratti di una scena di un sacrificio rituale, l’incaprettamento appunto, e qualcuno pensa che possa trattarsi di una danza e di acrobazie, forse per un rito di iniziazione, comunque non violento. Tuttavia l’idea che possa trattarsi di incaprettamento è suggestiva e ci turba al contempo. L’incaprettamento è un modo particolarmente crudele di uccidere un avversario, doloroso e lento, ma soprattutto sadico e perfido. Legato il collo alle gambe, che non possono resistere a lungo così fortemente flesse all’indietro, queste si risollevano tendendo la corda e provocando la morte per strangolamento della vittima. Una specie di involontario suicidio. A distanza di millenni, la mafia colpisce nello stesso tremendo modo. La stessa mafia nata nella stessa terra dove l’anonimo artista rupestre dell’Addaura ha inciso quel macabro rituale.

L’elenco dei morti per incaprettamento è lungo. Voglio ricordare solo due tra gli episodi più tristemente famosi. Correva il 1995 quando avvenne il duplice omicidio, per incaprettamento di due giovani tunisini, uno dei due anche evirato, abbandonati in una strada dal nome macabramente eloquente, via del Macello a Brancaccio, a un centinaio di metri di distanza dalla camera della morte, attrezzata dal boss Filippo Marchese dove gli esponenti dei clan rivali venivano torturati, uccisi e sciolti nell' acido. Alcuni anni prima, nel 1982 era stata la volta di Pino Marchese, cantante neo melodico palermitano dalla voce cristallina (non pensate subito che si trattasse di un cantante "tascio", le doti canore di quest’uomo erano notevoli: vi invito a sentire almeno sua la canzone “Palermo e nu villino”) il cui cadavere "incaprettato" con i genitali in bocca fu trovato nel bagagliaio di una utilitaria posteggiata a piazza Indipendenza. La sua colpa era quella di avere conquistato con la sua voce la sorella, sposata, del capomafia di Ciaculli, Lucchiseddu.

Facciamo un lungo passo indietro di nuovo, in pieno Rinascimento. Provate a cercare su internet “acqua Tofana”. Si trattava di un potente ma silenziosissimo, nel senso che non lasciava alcuna traccia, veleno a base di piombo ed arsenico. Orbene l’ideazione di questa letale sostanza tossica, usato prima che fosse lecito il divorzio in Italia, si deve proprio a una palermitana, Giulia Tofana, originaria della zona del Papireto che fu la prima a commercializzarla. Dopo avere contribuito all'eliminazione di chissà quante persone a Palermo, Giulia fu costretta a spostarsi a Roma per non essere beccata dall'inquisizione palermitana. E li i suoi commerci si moltiplicarono, fin quando il girò non si allargò troppo e ne scaturì un processo che, nel 1659,  vide condannate per impiccagione o murate vive oltre 50 donne che nel corso degli anni si erano rivolti a lei. Mentre della palermitana avvelenatrice si persero le tracce, forse aiutata a far perdere le sua tracce da amici molto influenti ai quali aveva reso preziosi servigi.

Se passiamo dal Rinascimento all’Illuminismo ecco un’altra assassina seriale palermitana, questa volta della Zisa. Giovanna Bonanno (ma in realtà sul suo vero nome di sono forti dubbi, e forse si chiamava Anna), detta la Vecchia dell’aceto, impiccata ai quattro canti in piena estate, due settimane dopo la presa della Bastiglia e, in Francia, cominciava un enorme massacro nel nome della Libertà (1789). L’anziana donna, che aveva 80 anni quando fu uccisa, arrotondava vendendo questo aceto “miracoloso” per eliminare nemici, parenti, amanti o mariti scomodi. Impiccata su di una forca particolarmente alta, con ai piedi il librone processuale e due damigiane dell’Aceto Arcano, venne poi sepolta nel Cimitero dei Decollati, fuori le mura di Sant'Antonino. La vecchia, per molto tempo, divenne lo spauracchio dei bambini palermitani monelli. Infatti per terrorizzarli e indurli alla “ragione” si diceva loro: Stai attento che ti prende la vecchia dell’aceto!

Ma la massima espressione dell’intreccio tra la morte e la cultura palermitana sta in quel luogo unico al mondo, quel luogo dove i morti incontravano i vivi. Le catacombe dei Cappuccini di Palermo (VAI ALLA SECONDA PARTE)

Igor Gelarda storico natalizio
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