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Sandra Figliuolo

Giornalista Palermo

Il casolare di Cinisi e l'antimafia dei simboli che si sente al di sopra della legge

Esattamente sette anni fa veniva arrestato Roberto Helg, ex presidente della Camera di Commercio di Palermo e paladino della legalità per le sue battaglie contro il racket, beccato proprio mentre - ironia della sorte - intascava il pizzo da un imprenditore. Appena pochi mesi dopo, a settembre, a cadere dal piedistallo antimafioso fu l'ormai ex giudice Silvana Saguto, che per anni aveva sequestrato beni ai boss, ma li avrebbe poi gestiti in modo non proprio trasparente. Due figure emblematiche per la società civile, venute giù all'improvviso come le loro maschere.

C'era una sola semplice (e amara) lezione da imparare una volta per tutte dopo questi episodi: al di là delle ipocrisie, delle belle facciate dorate, delle chiacchiere, il marcio può essere proprio ovunque - anche nell'antimafia - e una cosa può diventare in un attimo il suo esatto contrario. C'era da capire che i simboli non bastano (specie se servono soltanto a vestire di decenza la più squallida miseria umana) e che la legalità non può esistere soltanto quando conviene.

Ci sono due sentenze, di cui una addirittura definitiva, che stabiliscono che il casolare di contrada Uliveto, tolto al boss Gaetano Badalamenti e assegnato nel 2010 al Comune di Cinisi, debba essere restituito al suo legittimo proprietario: il figlio incensurato dello storico capomafia, Leonardo, perché quell'immobile fu confiscato a suo tempo per errore. Un errore all'italiana, ovvero un refuso nella trascrizione dei numeri delle particelle.

Può piacere o no, ma questo ha stabilito la legge e la legge va rispettata. A maggior ragione da chi sbandiera come pilastri della propria esistenza valori come la legalità e la giustizia. Prima di tutto dall'antimafia: perché calpestare, sminuire, ignorare quella sentenza definitiva vorrebbe dire compiere un sopruso, agire con arroganza, in spregio delle regole. Cioè esattamente ciò che normalmente fanno i mafiosi.

Si è fatto però in modo da creare sul piano simbolico - non avendo argomenti nella sostanza - uno scontro imbarazzante tra Leonardo Badalamenti, il figlio di don Tano Seduto, l'assassino di Peppino Impastato, e il fratello del giornalista ucciso nel 1978, Giovanni, e la nipote Luisa. Come ci si può schierare a questo punto con il primo, con un cognome che rappresenta l'orrore di Cosa nostra, accusato pure di non aver mai preso le distanze dal padre, deceduto da anni? E' semplice: rispettando la legge, anche quando non è facile e rasenta l'assurdo. Non cercando di aggirarla, alimentando conflitti simbolici che fanno sparire la sostanza, per esempio affidando quel casolare proprio alla onlus degli Impastato a gennaio dell'anno scorso, quando cioè la sentenza che dava ragione a Badalamenti era già stata emessa ed era nota da tempo anche al Comune di Cinisi.

"Non glielo daremo mai, il casolare resterà a noi", dice l'artefice di quell'affidamento, il sindaco Giangiacomo Palazzolo, come se una certa antimafia fosse appunto al di sopra della legge. Sono stati investiti quasi 400 mila euro di soldi pubblici in quello che era un rudere per renderlo un simbolo di legalità, è vero: si trovi un accordo se è possibile, ma senza dimenticare il punto fondamentale, quella sentenza che in ogni caso dà ragione a Badalamenti e che prevede la restituzione dell'immobile. 

La vicenda di Cinisi mi ha fatto tornare alla mente quanto accadde a Castelvetrano alcuni anni fa, quando venne arrestato il consigliere comunale Lillo Giambalvo, accusato di far parte di Cosa nostra e di aver giurato fedeltà a Matteo Messina Denaro. Claudio Fava, allora da vicepresidente della Commissione antimafia, chiese un "gesto di decenza" a tutti gli altri consiglieri: dimettersi, anche se erano stati legittimamente e democraticamente eletti. Anche in quel caso l'antimafia si sentì al di sopra delle regole e delle leggi. E oggi diventa ancora più intollerabile se si pensa che Giambalvo è stato assolto sin dal primo grado di giudizio e che la Cassazione ha confermato questa decisione un paio di settimane fa.

Non bastano i simboli (e i cognomi) per lottare contro la mafia. Bisogna invece mettere in pratica le parole che - forse con troppa facilità - si predicano, fare ciò che è giusto, non limitarsi semplicemente a dirlo. E questo soprattutto quando è difficile. Per non rischiare di somigliare proprio a quel male che si vorrebbe contrastare. 

 
 

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