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Il Don Giovanni al "tempo del contagio": come cambia l’opera? Al Teatro Massimo vince l’arte "sotto una nuova luce"

In forma semiscenica, il dramma giocoso in due atti di Mozart riporta l’opera al Massimo dopo sette mesi di lockdown e di distanziamento. Il teatro si schiude in un gesto di speranza culturale e umana

Mentre la notizia del Metropolitan Opera House di New York di rinviare l’apertura di un anno risuona tra le stanze della cultura internazionale con non poche preoccupazioni, a Palermo il teatro si schiude in un gesto di speranza culturale e umana con il Don Giovanni del regista Marco Gandini. In forma semiscenica, il dramma giocoso in due atti di Wolfgang Amadeus Mozart riporta l’opera al Teatro Massimo dopo sette mesi di lockdown e di distanziamento. Sul podio a dirigere l’orchestra Omer Meir Wellber, con Alessio Arduini (Don Giovanni), Sarah Jane Brandon (Donna Anna), Benjamin Hulett (Don Ottavio), Aga Mikolaj (Donna Elvira), Riccardo Fassi  Leporello), Laura Giordano (Zerlina), Evan Hughes (Masetto), Adam Palka (Commendatore); maestro del Coro, Ciro Visco.

Al di là di un bilancio fatto di applausi a un’orchestra impeccabile e a cantanti altrettanto bravi che hanno dato vita a questo Don Giovanni al tempo della Covid-19, non ci si può esimere dal soffermarsi sulle circostanze in cui quest’opera si compie. Il “tempo del contagio” e il suo spazio emotivo diventano parte dell’opera stessa. Si inizia varcando il cancello, il cartellone del Don Giovanni mostra fiero la scritta “sold out”, duecento biglietti staccati, una drastica riduzione dei posti. È il primo accenno al cambiamento, a cui vieni introdotta passo dopo passo mentre sfidi la scalinata e ti immergi nel tempo delle distanze scandite dal metronomo delle disposizioni anti contagio: dalla misurazione della temperatura sotto lo sguardo attento dei monumentali leoni e delle svettanti colonne corinzie del pronao, alle bolle degli adesivi sul pavimento che con la silhouette di musicisti e danzatori ti dicono di “attendere qui” e poi ancora “qui”. 

Impaziente di registrare cosa è cambiato e come, ti muovi dentro una scacchiera, tra le pieghe di una ferita storica che si compie e ci  trasforma in testimoni prima ancora che in spettatori. Ammettiamolo. La musica e il canto di questo Don Giovanni vincono, vince la bravura dei cantanti, vincono su questa distopica mutazione culturale e antropologica che non trova impreparato il Teatro Massimo, né la sua compagine di artisti e operatori che a vario titoli mostrano uno sguardo lucido su un futuro pressoché incerto. A dimostrazione del fatto che si possa cercare di trasformare la crisi in un’opportunità di sperimentazione e invenzione, un atto simbolico non solo per il teatro, ma per il mondo della cultura, proprio come suggerito dallo slogan della Stagione 2020 del Teatro Massimo: “Sotto una nuova luce”.

Don Giovanni in scena al Teatro Massimo

Ciò che appare chiaro è che il cambiamento è lì, tangibile, spaventoso se volete perché ribalta tutto ciò a cui siamo stati abituati. Rimodulare il nostro modo di ascoltare e vedere. La scena del coro che entra con indosso le mascherine, togliendole per cantare e rindossandole prima di andare via, sembra un’azione scenica, una finzione registica, che assimilata rimane addosso mentre stai prendendo ancora le misure con quel nuovo modo di assistere alla messinscena e di lasciarla scorrere in te; che il vezzo di chiudere gli occhi in alcuni passaggi difficilmente te lo concedi in un bramosia visiva che vuole registrare ogni cosa. Assistere a un’opera come Don Giovanni che parla di seduzione e seducenti tocchi (Søren Kierkegaard se ne ispirò per i suoi scritti sull’eros) senza baci e abbracci, con cantanti ben distanti tra loro anche durante i balli, non può non colpire. Ma, c’è una certa poesia in tutto questo malinconico riprogrammare i sensi, in una sottrazione che se guardata da altra prospettiva è restituzione in purezza della musica e del canto, che si impongono con forza e investono con maggiore vigore. Sarà per via dell’orchestra che conquista l’intera platea in un assetto visivo che incanta, con una luce morbida che cala su spartiti, strumenti e musicisti, con il direttore Omer Meir Wellber che dirige e suona il clavicembalo con estro creativo, divertendosi in improvvisazioni fuori partitura che divertono, con la complicità di un’orchestra in piena sintonia con il suo direttore capace di omaggiare egregiamente la dinamicità del ritmo mozartiano. Sarà per via dei cantanti che si sono mossi con maestria nell’arena lignea della platea, tra palcoscenico, pedane di proscenio, rivolgendo spesso al pubblico uno sguardo più complice e meno distante.

Di livello il cast vocale sia nel canto che nei recitativi. Alessio Arduini è un Don Giovanni credibile per fascino scenico e incisività musicale, anche se la parte finale meritava più drammaticità. Leporello interpretato da Riccardo Fassi è convincente nel canto quanto nella  gestualità, si muove disinvolto tra i doppi sensi e lo stile giocoso del suo personaggio. Una vocalità ricca di sfumature, un fraseggio curato e un ottimo profilo scenico per entrambe le tre protagoniste femminili, applaudite dal pubblico palermitano: Sarah Jane Brandon  restituisce una Donna Anna con una timbrica luminosa; il soprano Aga Mikolaj interpreta con eleganza vocale e sicurezza scenica il ruolo di Donna Elvira; a proprio agio nel ruolo di Zerlina anche la palermitana Laura Giordano. Buona la prova recitativa e canora degli altri personaggi maschili: il tenore Benjamin Hulett (Don Ottavio), Evan Hughes (Masetto) e Adam Palka il Commendatore che conquista la scena finale. Ed è proprio il finale che ci riserva uno dei momenti migliori di quest’opera, che non convince solo in alcune scelte dell’impianto visivo a cura del videomaker Virginio Levrio. Le immagini video ci offronoscorci veneziani con portici, campielli e flutti lagunari, e fin qui tutto bene, se non fosse per la gigantografia del protagonista, primi piani del Don Giovanni in slow-motion, talvolta a petto nudo, che si stagliano sullo sfondo, una scelta un po’ démodé, semplicistica e poco azzeccata, soprattutto se il tentativo è quello di veicolare una carica erotica e seduttiva.

Il finale risarcisce con l’empio e impenitente Don Giovanni inghiottito dalle fiamme ‘tecnologiche’ degli inferi. Nella versione in scena al Teatro Massimo si fa a meno del celebre finale “Questo è il fin di chi fa mal” affidato al sestetto di cantanti che gioisce della morte del protagonista e canta la morale. Un taglio che riprende la versione viennese eseguita l’anno successivo alla prima e fortunata rappresentazione a Praga del 29 ottobre del 1787. Non si sa bene se lo stesso Mozart preferisse rinunciare al sestetto finale dell’opera secondo il gusto romantico dell’epoca. Don Giovanni, dunque, muore sul palco palermitano avvolto da un vento infernale, trafitto da luci rosse e blu stroboscopiche (lighting designer, Francesco Vignati) che fasciano l’intero teatro grazie all’uso del Super FX di Filippo Scortichini, laser 3d grafico e volumetrico che permette ai fasci di luce colorata di creare un sottile ordito nel fumo che si è pian piano alzato dal pavimento. Una nuvola colorata che avvolge cantanti e orchestra, in una restituzione onirica che ben suggerisce la dimensione ultraterrena del finale. Una scena immersiva di grande impatto visivo su cui cala il sipario, accompagnato dagli applausi a scena aperta. "'Don Giovanni'… Mozart immortale! […] che il mio spirito è stato colpito da meraviglia ed è stato scosso nelle sue profondità" per dire, con le parole di Kierkegaard, quanto la potenza di quest’opera sia anche messaggera di speranza e progettualità in un momento storico carico di fragilità.


 

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