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Cronaca Malaspina / Via Antonio Furitano, 5

Tutto esaurito al Lelio per Celestini "Combattere la mafia in noi stessi"

Dopo 13 anni dal suo ultimo spettacolo in città, è tornato ad esibirsi l'attore teatrale e drammaturgo romano con lo spettacolo "Il piccolo paese". L'artista racconta storie in cui mette insieme "parole e non fatti"

Dopo tredici anni dal suo ultimo spettacolo in città, è tornato ad esibirsi l'attore teatrale, regista, scrittore e drammaturgo romano Ascanio Celestini. Sul palco del Teatro Lelio lui, mattatore unico della serata che ha fatto registrato il tutto esaurito con lo spettacolo "Il piccolo paese" e la direzione artistica di Roberto Bellavia. Al centro dei suoi monologhi alcune microstorie di vita quotidiana, dove l'artista cerca di mettere insieme "parole e non fatti".

Che rapporto ha con la città di Palermo?
"La prima volta che ho fatto spettacolo a Palermo fu nel 2000. Portai 'La fine del mondo' che aveva appena vinto un premio ed era stato prodotto dal Teatro di Roma diretto da Mario Martone. Fu una sola replica in agosto. Eravamo in tre sulla scena, io e due musicisti. La scenografia era composta da un grosso ombrellone dal quale pendevano 23 lampadine. Mi ricordo che per un disguido rimanemmo chiusi dentro e solo per caso passò un guardiano che ci tirò fuori. L'anno successivo Moni Ovadia ci chiamò ai cantieri della Zisa per fare una piccola retrospettiva dei lavori che avevo scritto fino ad allora. Venni con quattro spettacoli ed ebbi la possibilità di vedere un po' la città. Da un robivecchi comprai due lampade di alluminio che ho usato per lo spettacolo 'Fabbrica' col quale ho debuttato nel 2002 e che ancora porto in scena. Poi non sono più stato chiamato a Palermo. E' una bella emozione tornare a fare spettacolo qui dopo 13 anni e vedere che viene ancora tanta gente a teatro".

Quale messaggio si nasconde dietro lo spettacolo "Il piccolo paese"?
"Non ci sono messaggi negli spettacoli, non devono essercene. I messaggi li mandano i naufraghi con le bottiglie e i presidenti a reti unificate. Il teatro (e la letteratura in generale) è un’esperienza che l’attore fa insieme allo spettatore. Non serve a chiudere un discorso su un concetto, ma ad aprirlo".

Parla spesso di mafia, un fenomeno "evoluto" rispetto al passato. Cosa significa oggi essere mafiosi?
"Siamo tutti mafiosi, così come siamo tutti razzisti e cattolici, tutti fascisti e comunisti e democristiani. Sono condizioni che fanno parte della nostra formazione culturale. Lo siamo anche quando non vorremmo esserlo. Non ha senso dichiararsi 'buoni' in contrapposizione a qualcun altro che indichiamo come 'cattivo'. Per combattere la mafia o il fascismo dobbiamo combattere la mafia e il fascismo che è in noi".

Qual è secondo lei il rapporto fra politici/politicanti e cittadini? Che distanza intercorre fra loro?
"La democrazia fondata sulla rappresentanza è una forma che storicamente ha avuto un ruolo importante, ma sostanzialmente sorpassato. In un sistema dove i poteri sono spesso sovranazionali, dove l’economia e la finanza sono globali e gli stati sempre più deboli è poco 'democratico' votare per i propri rappresentanti in Parlamento e in Senato sapendo che da lì avranno ben poco potere rispetto a tutto ciò che gli ruota attorno. Il modello per una democrazia del presente è quello diretto e partendo dalla gestione di piccoli territori. La democrazia sostenuta da cittadini/abitanti che si confrontano direttamente senza deleghe e senza il mito infantile del web che invece di mostrare nasconde".

"Spese pazze" all'Assemblea regionale siciliana. Come legge questi episodi di cronaca?
"Io non credo che la crisi della politica sia una conseguenza del malcostume dei politici. Penso che sia il contrario, ovvero che il cinismo e il malcostume siano determinati dalla crisi della democrazia fondata sulla rappresentanza. Ovviamente ci sono politici che rubano meno e persino che non rubano affatto, ma la questione sostanziale è che sia gli onesti che i disonesti hanno a disposizione lo stesso meccanismo".

Quali figure siciliane del passato hanno lasciato un segno indelebile?
"Negli anni dell'università è stato molto importante scoprire i materiali etnografici di Pitré, così come è stata ed è un'esperienza piena di immagini e stimoli assistere al lavoro di Mimmo Cuticchio. Ma la vera folgorazione per me è stato il cinema di Vittorio De Seta e in particolare 'Diario di un maestro'. Mi colpisce il suo modo non politico di essere ideologico e libero nel modo di avvicinarsi agli umili. È lui stesso che ne spiega le motivazioni quando racconta della guerra e della sua esperienza di prigionia coi tedeschi, dice che apparteneva «a una famiglia aristocratica, quindi non sapevo niente del popolo in prigionia ci hanno messo insieme ai soldati e così ho conosciuto i pescatori, i contadini del nord e del sud. è stata un’esperienza decisiva. Ho contratto un debito di gratitudine, così quando faccio i documentari mi sono occupato di loro»".

In "La pecora nera" ha avuto a che fare con Daniele Ciprì. Come è stato lavorare con lui?
"Daniele è stato l'occhio del mio film prima che il film esistesse. È stato il primo costruttore delle immagini, ma per l’energia che sprigiona somiglia più ad uno scultore che suda per estrarre la forma dalla pietra che ad un pittore che traccia linee su una tela".

Cinema, teatro, televisione. Quale "canale" preferisce?
"Non trovo che ci sia una differenza di linguaggio tra la parola scritta e la parola detta, tra il cinema e la musica. Tantomeno credo che la televisione possa avere un linguaggio autonomo. Più si ingarbuglia e rimescola la multimedialità, più conta il lavoro umano che propone il singolo individuo per districarsi".

Che rapporto ha con il teatro ed il pubblico?
"Non credo che esista una categoria di esseri umani che può essere definita 'pubblico'. Ogni spettatore entra in sala con la propria formazione e le proprie aspettative oltre che con una curiosità o una stanchezza che appartengono solo a lui. Se l’attore dovesse tener conto dello spettatore farebbe solo un lavoro di rincorsa, passerebbe l’intero tempo dello spettacolo a seguire le sensazioni che provengono dalla platea. Sarebbe come se un falegname costruisse una sedia in base al sedere che ci si poggerà. Un bravo falegname costruisce una buona sedia e basta".

Guardando al mondo del lavoro, cosa consiglierebbe ai giovani?
"Dobbiamo (non solo i giovani, ma tutti noi) riconquistare una nuova coscienza di classe. Per il lavoro e in particolare sul posto di lavoro si combatte un conflitto. Si lotta per i propri diritti, per esempio. E anche quando il lavoratore non combatte, lo fa il suo padrone che glieli toglie. Ma questo conflitto è cambiato con la globalizzazione. Il mio vicino di casa che voleva entrare in fabbrica il giorno dello sciopero, veniva fermato da un picchetto. Oggi il crumiro non è più il mio dirimpettaio, ma un operaio cinese, indiano o brasiliano. Non posso più fermare lui, ma il prodotto che produce. La lotta sindacale può iniziare in fabbrica, ma deve continuare al centro commerciale. Deve coinvolgere la comunità per intero e non solo il piccolo gruppo. Perciò a quelli che si affacciano oggi sul mondo del lavoro vorrei dire che il lavoro da solo non esiste. Fa parte di una catena nella quale produzione e consumo finiscono per diventare la stessa cosa. Oggi un lavoratore cosciente è anche un consumatore cosciente. È un operaio che monta il manubrio di alluminio su uno scooter, ma anche quello che sceglie una mela del trentino perché abita a Trento o un arancia di Ribera perché vive ad Agrigento".

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