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Alfonso Giordano e il ricordo del sorriso disteso con cui si è consegnato all’eternità

Di Alfonso Giordano, la letteratura giuridica, cronachistica, cinematografica degli ultimi 35 anni è sconfinata: il presidente del Maxiprocesso a Cosa nostra che non indietreggiò davanti alla richiesta di giudicare i sanguinari boss finiti in gabbia; il magistrato che con la sua voce sottile “mitragliò”, inchiodandoli alle loro responsabilità centinaia di mafiosi con condanne che avrebbero retto sino in Cassazione. E ancora, successivamente, uomo simbolo, oracolo e memoria storica di quei fondamentali giorni del nostro Paese.

Per chi scrive, Alfonso Giordano appartiene agli affetti più cari. Un legame nato e maturato in un contesto familiare, negli anni più delicati della sua professione da una parte, e della mia formazione umana dall’altra. E’ inevitabile dunque che il mio ricordo di Alfonso inizi laddove quello dei cronisti d’un tempo finiva, tornando ognuno nelle proprie redazioni a scrivere. Una "carezza" che raccoglie quegli episodi che, al netto degli spessi finestrini oscurati delle Croma blindate e dei lampeggianti che filtravano le serrande delle nostre stanze, raccontano la determinata volontà di un uomo che non avrebbe mai concesso alla sua missione istituzionale di intaccare il suo desiderio di normalità. La sua passione per la conoscenza, la sua curiosità lo portavano spesso a ripetere “sono gemello astrale di Piero Angela”, essendo nato lo stesso giorno e lo stesso anno del popolare divulgatore intellettuale, quasi a voler giustificare quel suo bisogno di capire le cose assurto a stile di vita.

Le lezioni di yoga, con una tuta cerata dai colori improbabili. Yoga che amava ricordare quanto fondamentale si sarebbe rivelato proprio nel momento in cui lesse - quasi tutta d’un fiato - la chilometrica sentenza del Maxiprocesso. E poi le gite. Tantissime. Ospiti di amici in barca - con l'elicottero della polizia che ogni tanto veniva a far capolino dall'alto - o alla scoperta delle tradizioni di paesini sperduti tra le montagne. E poi le serate di festa con i larghi sorrisi a illuminare il dietro le quinte di un proscenio assai difficile per mille ragioni.

La sua simpatica distrazione che faceva sorridere, e qualche volta un po’ penare, i ragazzi della sua scorta che ha amato e lo hanno amato fino alla fine. Un uomo brevilineo ma che come la più laboriosa delle formiche sapeva reggere su di sé la mole enorme della responsabilità, senza che essa apparisse mai grave.

Un'intelligenza capace di disinnescare con la razionalità lo spettro di ogni paura. Che con quel “e questo ce lo auguriamo anche noi” condusse al livello di una macchietta il celebre augurio-anatema rivoltogli da Michele Greco prima che la Corte d'Assise si ritirasse in camera di consiglio al Maxiprocesso.

Era clinicamente coraggioso, e soltanto una volta lo vidi concedere un metro in più alla preoccupazione. Era il giorno della strage di via d’Amelio, e quando la notizia ci raggiunse, a casa di amici sulla strada che s’inerpica verso Gibilmanna, lui ci raccolse tutti di corsa dentro una stanza, abbassò le tapparelle e disse “Adesso tocca a me. Adesso vengono da me”, mentre io che avevo 10 anni non capivo, e tutti attorno a lui si adoperavano per tranquillizzarlo.

L’ho salutato, Alfonso, quando non c'era già più. Dicendogli grazie per tutto ciò che di lui ho portato, porto e porterò per sempre nel cuore e nella vita. L’amicizia fraterna con suo figlio Stefano. Baùli di foto. Compreso il rammarico di un incontro - ultimo col senno di poi - sfumato nelle scorse settimane. E infine porterò l’estremo regalo che allevia il dispiacere di chi resta: il ricordo del sorriso disteso con cui si è consegnato all’eternità.
 

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