Lavoro e precariato: "Sulla mia pelle..."
Riceviamo e pubblichiamo
In passato ho parlato più volte di me. Tra le righe di questo blog ho cercato di raccontarmi poco a poco, a volte in modo chiaro ed esplicito, altre volte ho sottoposto all’attenzione dei lettori frammenti impliciti della mia vita. Non ho nascosto, anzi tutt’altro, il fatto di aver abbandonato l’università poco più di un anno fa. Non ho fatto mistero sul peso di questa rinuncia, non ho celato tutto quello che ha significato per me. Scelta che mi parse necessaria, corretta e rivelatrice, col tempo ha mostrato rischi, problematiche, che avevo messo in conto in maniera distaccata e poco lucida. Effettivamente le scelte più importanti, per quanto ci sembrino ponderate, non lo sono mai abbastanza: un minuto dopo la decisione appena presa può sembrarci la peggiore mai considerata. Non so esattamente quali fossero le mie aspettative, quali fossero le mie ferme convinzioni dell’epoca: se c’è una cosa che faccio spesso , questa è cambiare. Cambio idea, prospettive, punti di vista, personalità. Sono sempre, in ogni caso, il risultato inevitabile di ciò che attraverso. E come me, penso che tutti , in fondo , siano un po’ così.
Sentirmi meno sola nei bivi della mia vita, non mi ha mai fatto credere che mal comune fosse effettivamente mezzo gaudio. Ho compreso fin da subito che un male comune, resta pur sempre un male, anche se condiviso con altri. La prospettiva lavorativa che mi si è presentata davanti, a parte qualche minimo barlume di speranza e concretezza, è stata sempre piuttosto disarmante e demotivante. Disarmante perchè effettivamente ti ritrovi sempre impreparato nonostante l’esperienza; demotivante perchè gli stimoli sono quasi del tutto assenti e la volontà di chi tenta in tutti i modi di scoraggiarti, invece, è sempre lì ad aspettarti. Oggi uno degli scenari più tristi, a mio avviso , nell’ambito della situazione lavorativa italiana: il colloquio di gruppo. Dio Mio, credevo di averle viste tutte. Quanto mi sbagliavo. Strumento inutile, che non fa altro che ridurti a numero, dandoti l’impressione ( se ce ne fosse ulteriore bisogno) di essere semplicemente un “io” , una pedina, un nuddu mmiscatu cu niente direbbero dalle mie parti. Quando ti trovi a condividere una grossa scrivania, con altre 6 persone tutte in corsa per uno stesso impiego, ti senti inevitabilmente in imbarazzo.
Come se fossi lì a rubare dalla tasca di qualcun’altro qualcosa che non ti appartiene. Quando ti chiedono di parlare di te, di spiegare il motivo del tuo interesse, di esprimere i tuoi punti di forza..quello è forse il momento peggiore. Con una parola di troppo potresti ferire qualcuno, togliere la speranza da un cuore, spegnere il sorriso di un volto . Non sono per queste cose , io. Non mi importa di impicciarmi negli affari altrui. Non amo la condivisione di sfaccettature personali che dovrebbero restare strettamente private. Non è un gioco, è una cosa seria. Ed anche la più banale dell’esperienze va portata avanti con criterio. E così che oggi ho ascoltato, senza volerlo, senza averlo preventivato, tutto il dispiacere di Giulio, 36enne, diplomato e laureato in ingegneria informatica. Ho letto sul suo viso e sentito nel tremore della sua voce, tutto l’imbarazzo di uomo che all’improvviso è costretto a svuotare su una scrivania tutte le difficoltà della sua vita.
Si è definito un papà in pianta stabile, un uomo che fa 3 o anche 4 lavori: un personal trainer di giorno, un informatico ogni tanto, un capo sala alla sera. Dirige 5 ragazzi quando ne ha la possibilità. Con rammarico concordava con tutti di essere stato per troppo tempo nel posto sbagliato. Di non aver mai e poi mai avuto un contratto lavorativo che si potesse definire tale. Di aver avuto solo calci in culo e porte in faccia, chiuse. Di non aver preso la decisione di andare via, di non poterlo fare adesso che è troppo tardi. A soli 36 anni lui parlava già di troppo tardi. Con le lacrime soffocate dietro le lenti dei suoi occhiali, cercava in tutti i modi di far emergere le sue capacità: certamente deve averne tante. Per un’anima sensibile questa è già una mazzata. Passiamo poi a Maria, donna di 40 anni, abilitata all’insegnamento, ha effettivamente insegnato solo per due anni. In attesa da non si sa quanti altri : ha smesso di contarli. Ha richiesto trasferimenti e dato disponibilità a lavorare anche nelle isolette minori del Mediterraneo. Nonostante due figli sulle spalle, nonostante un matrimonio finito o forse mai realmente iniziato. Cameriera, dipendente call center, commessa in reparto profumeria, non si è fatta mancare nulla.
Ho sentito con le mie orecchie la sua sete di arrivare, in qualche modo , da qualche parte. Non faceva altro che ripetere ” ne ho bisogno, ne ho davvero bisogno”. Anche lei terribilmente imbarazzata. Loredana poi, call center da 15 anni. Messa alle porte adesso da un’azienda che non ha mai saputo valorizzarla. Messa alle porte senza preavviso, da un momento all’altro sulla strada. Letteralmente per lei. Nelle sue parole tanta competenza e voglia di fare. Allo stesso tempo tanta delusione e troppa, ma troppa incertezza del futuro. Un’incertezza logorante, che, come ha ammesso in prima persona, non poteva più permettersi di portare avanti. Mi chiedo: davvero non esiste una soluzione a tutto ciò? Mi muovo in questo campo da troppo poco tempo per parlare, eppure ne ho sentite tante. Ho raccolto tante esperienze di disperati come me, tutti sulla stessa barca che fa acqua da tutte le parti. Eppure l’Italia è una Repubblica fondata sul Lavoro. Eppure il Lavoro nobilita l’uomo. Forse nobilita quell’ uomo che nobile lo è già per altri motivi. Vorrei che chi di dovere scendesse dal piedistallo del suo privilegio, si muovesse tra la gente, quella vera, si sedesse attorno a quella scrivania, ascoltasse le storie, leggesse negli occhi le speranze e la forza di chi, mai stanco, intende provarci ancora. Un paese che caccia via le risorse migliori che ha è un paese senza fondamenta.
Eppure oggi con amarezza infinita, ho trovato davvero il grande buco nero di questa realtà, di questa nazione e di questa città. Ho compreso l’atto di coraggio di chi capisce che bisogna mollare tutto. Ancora di più stimo senza limiti chi alla fine tutto lo molla davvero. Queste persone senza dubbio spiccheranno il volo dai loro sacrifici immensi . Perchè accettare di andare via sì, è un sacrificio. Farlo poi è una prova d’amore immenso. Amore per sé stessi e per il proprio futuro, che magari un giorno sarà futuro di altri. Chissà se chi muove le fila di questo paese, chi lo fa in maniera silente, si è mai chiesto : “Che ne sarà di me domani? Che progetti ho? Che progetti posso permettermi di portare avanti?”. Troppo facile parlare quando si ha scelta. L’integrità di un uomo si misura quando scelta non ne ha. E in tanti, effettivamente, non abbiamo il beneficio della scelta. Letteralmente prendiamo ciò che passa il governo. Letteralmente accettiamo tutto , perchè a tutto dobbiamo essere pronti. Che sgomento. Che sgomento sentire quel papà parlare in quel modo della propria vita. Che sgomento sentire una madre disposta a lasciare i propri figli per assicurargli il meglio, a costo di non poterne far parte. Non è più di giovanissimi che stiamo parlando.
E’ di uomini e donne perfettamente adulti e maturi, laureati e non, con esperienza e non, anche loro vittime di un sistema in cui meritocrazia, bisogni e competenze non contano nulla. Eppure in questo scenario sconfortante io una cosa l’ho capita: posso constatare che le cose vadano così, come ho appena fatto, ma ciò non vuol dire che io debba cedere. Cedere non è contemplato. Non è vero che non c’è lavoro. Non è vero che non ce la possiamo fare. L’unica cosa che importa è tentare, quanto più possibile. Riuscire ad inquadrare un ambito particolare, una competenza specifica e farne tesoro. Per quanto possibile prima di voltare le spalle a questa città voglio assaporare tutto ciò che ha da offrire. Perchè c’è e ci deve essere un angolo nascosto in cui possa inserire qualcosa di mio. Perchè anche io e come me tanti altri dobbiamo poter sfruttare la nostra opportunità.
Fosse anche solo una. Non voglio piegare la testa alla rassegnazione. Oggi mentre ascoltavo quelle testimonianze di vita, per un attimo ho avuto la paura di poter trovare qualcosa di me in quelle persone. Per un attimo ho pensato di poter incappare nell’immagine di una me quarantenne alle prese con quei problemi. Quel pensiero mi ha sfiorato la mente , ma non gli ho permesso di annidarsi lì. Proverò, fallirò, ritenterò, ma prima o poi succederà. Anche a me spetterà una fetta, un pezzetto o una briciola di quella torta. Giocherò anche l’ultima possibilità. Proverò a fare ciò che mi piace. E’ un diritto: se perdiamo questa definizione del lavoro abbiamo perso tutto .