Trattativa Stato-mafia, l'ex ministro Mannino assolto definitivamente: "Fine di un calvario"
La Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso della Procura generale, confermando la sentenza di appello. L'imputato scagionato sin dal primo grado, dopo essere stato sotto processo per 15 anni per concorso esterno. "Esistono magistrati leali, ma alcuni pool investigativi non funzionano"
Per l'accusa, sarebbe stato il "motore" della presunta trattativa tra la mafia e pezzi deviati dello Stato, colui che, temendo di essere ucciso dai boss avrebbe attivato, attraverso i carabinieri e l'ex sindaco mafioso di Palermo, Vito Ciancimino, le manovre per trovare un "compromesso" con Cosa nostra. Invece - e questa volta la sentenza è definitiva - per l'ex ministro democristiano, Calogero Mannino, anche la sesta sezione della Cassazione ha sancito l'assoluzione, dichiarando inammissibile il ricorso della Procura generale.
Mannino, che è l'unico imputato ad aver scelto il rito abbreviato, è stato assolto dall'accusa di violenza o minaccia a corpo politico dello Stato sin dal primo grado di giudizio. La prima sentenza fu emessa dal gup Marina Petruzzella il 4 novembre del 2015 e venne poi confermata in appello, il 22 luglio dell'anno scorso, dal collegio presieduto da Adriana Piras. Nelle motivazioni di questo secondo verdetto, i giudici avevano scritto che "non è stato affatto dimostrato che Mannino era finito anch'egli nel mirino della mafia a causa di presunte ed indimostrate promesse non mantenute (addirittura quella del buon esito del primo Maxiprocesso), ma anzi, al contrario, è piuttosto emerso dalla sua sentenza assolutoria che costui fosse vittima designata della mafia proprio a causa della sua specifica azione di contrasto a Cosa nostra quale esponente del governo del 1991, in cui era rientrato dal mese di febbraio di quell'anno". Inoltre, secondo il collegio che aveva totalmente bocciato la ricostruzione dell'accusa, "la tesi della Procura è non solo infondata, ma anche totalmente illogica ed incongruente con la ricostruzione complessiva dei fatti".
Per l'ex ministro si chiude quindi anche questa travagliata vicenda giudiziaria, dopo essere stato anche arrestato (il 13 febbraio del 1995, rimase recluso tra carcere e domiciliari fino al gennaio 1997) ed essere finito poi sotto processo per ben 15 anni, con l'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. In questo caso venne assolto - nel 2001 - in primo grado, condannato due anni dopo in appello, e infine assolto definitivamente il 14 gennaio del 2010.
Non a caso Mannino - rispondendo all'Adnkronos - ha definito la sua vicenda giudiziaria "una lunga via crucis durata trent'anni", pur ritenendo che in Italia "ci sono magistrati liberi che procedono secondo le regole e rendono testimonianza di lealtà alle istituzioni". Non nega che "pur ponendosi il gravissimo problema del funzionamento della giustizia in Italia e in particolare del funzionamento di alcune Procure o, meglio, di gruppi di magistrati all'interno di queste, in Italia c'è ancora speranza. Detto questo - rimarca - bisognerà affrontare il problema di trent'anni di processo con ben oltre dieci sentenze tutte di assoluzione". Non esita a parlare di "ossessione persecutorie" nei suoi confronti, ma afferma "non ho tentazioni polemiche".
Mannino, difeso dagli avvocati Carlo Federico Grosso e Grazia Volo ("i miei angeli"), si è poi detto "lieto per mia moglie, per mio figlio, i miei nipoti Vittoria e Calogero che hanno partecipato nel tempo, diversamente, a questa mia lunga via crucis".
La sentenza assolutoria dell'ex ministro non potrà non avere ripercussioni sull'altro pezzo del processo Trattativa, pendente in appello. In questo caso, in primo grado, la Corte d'Assise presieduta da Alfredo Montalto, ha inflitto invece condanne pesanti agli altri imputati, i boss Leoluca Bagarella (28 anni), Antonino Cinà (12 anni), l'ex senatore di Forza Italia Marcello Dell'Utri (12 anni), gli ex vertici del Ros dei carabinieri, Mario Mori (12 anni), Antonio Subranni (12 anni) e Giuseppe De Donno (8 anni) e Massimo Ciancimino (8 anni).
Le indagini sul presunto patto tra boss e istituzioni furono chiuse a giugno del 2012 dal pool allora composto dall'ex procuratore aggiunto Antonio Ingroia e dai sostituti Nino Di Matteo, Lia Sava e Francesco Del Bene, nell'ufficio guidato ai tempi dal procuratore Francesco Messineo. Un altro pm, oggi aggiunto a Palermo, Paolo Guido, non condividendo le conclusioni dei colleghi decise di non firmare l'atto.