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Cronaca

L'amarezza dell'unico sopravvissuto a via D'Amelio: "Borsellino meritava protezione, ma fu lasciato solo"

Parla Antonio Vullo, agente di scorta sopravvissuto all'attentato, ascoltato dalla commissione Antimafia dell'Assemblea regionale siciliana. In audizione anche l'allora ministro dell'Interno Vincenzo Scotti e l'ex pm Antonio Ingroia

"Non sapevamo delle minacce arrivate in quei giorni all'incolumità di Borsellino, né di quel rapporto dei Ros sul tritolo per Borsellino e Di Pietro. Quest'ultimo fu portato all'estero, mentre Borsellino 'evidentemente' non rischiava nulla e quindi è stato lasciato solo". Amarezza, dolore, rabbia emergono dalle parole di Antonio Vullo, agente di scorta sopravvissuto all'attentato di via D'Amelio, ascoltato dalla commissione Antimafia dell'Assemblea regionale siciliana che si sta occupando dei depistaggi relativi all'inchiesta sulla strage del 19 luglio 1992. Oltre a Vullo, sono stati sentiti anche l'allora ministro dell'Interno Vincenzo Scotti e l'ex pm Antonio Ingroia.

Vullo ha ricordato l'aria che si respirava quell'estate, le paure, le difficoltà. "La domenica in cui presi in custodia il giudice Borsellino andammo subito in via Cilea, dove abitava - dice -. Immaginavo di trovare un bunker, dal momento che dopo Capaci credevamo tutti fosse doveroso difendere Borsellino, ma lì non c'era neanche una vigilanza fissa e in quei giorni noi, che eravamo in tre, dovevamo controllare il box interno, l'edificio e l'androne".

Il racconto prosegue con i fatti di quel tragico pomeriggio. "Appena siamo arrivati quel pomeriggio del 19 luglio 1992 in via Autonomia Siciliana all'angolo con via D'Amelio mi sono bloccato perché ho visto tante auto parcheggiate, ma non abbiamo potuto fare nulla perché il giudice è arrivato e si è messo prima delle altre auto. Io mi sono posizionato alla fine di via D'Amelio, dove c'era il muretto che delimitava il giardino interno. Poi ho visto che c'erano due scivoli, e con la pistola in mano, ho dato un'occhiata per vedere se c'erano delle cose sospette. Ma non ho notato nulla di particolare - dice - la seconda auto è entrata direttamente, aveva l'obbligo di bloccare l'ingresso di via Autonomia Siciliana ed è andata dietro l'auto del giudice. Ho visto scendere il giudice che non ha preso nulla dall'auto, Loi e Catalano gli sono arrivati subito accanto".

Inevitabile anche un riferimento alle dichiarazioni dell'ex collaboratore Maurizio Avola, già smentite nei giorni scorsi dal capo della Direzione distrettuale antimafia nissena, Gabriele Paci. Anche Vullo "smonta" la ricostruzione fatta da Avola e nega che lo sportello dal lato del giudice Borsellino fosse aperto. "Lo sportello dell'auto di Borsellino era chiuso - ricorda - l'unico aperto era il mio". 

"Quello che mi ha ferito più di tutto in questa storia - dice ancora Vullo - è come è stato presentato questo libro di Santoro, come se fosse tutta verità, senza avere una logica. Invece ci sono ancora indagini in corso. Anche perché Santoro è una persona capace, ma ha presentato Avola come se fosse la verità e ha macchiato anche il nostro operato. Noi abbiamo fatto da scudo al giudice Borsellino e lo abbiamo fatto con dedizione e paura, lo abbiamo fatto con il cuore, perché il dottore Borsellino meritava di essere protetto in modo adeguato. Invece, fin da subito abbiamo visto che era solo e anche noi eravamo soli".

Solitudine, isolamento, emergono anche dalle parole di Scotti. Prima delle stragi l'allora ministro dell'Interno mandò una circolare a tutti i prefetti e ai questori paventando il rischio di attentati, "ma fui attaccato, e mi trovai di fronte a una reazione violenta, dovevo chiedere scusa per avere sollevato una tensione dichiarando l'allerta", denuncia lo stesso Scotti.

Di depistaggio "ad alti livelli" è tornato a parlare Ingroia, per il quale "è impensabile che se fosse stato messo in piedi un depistaggio di Stato sarebbero stati coinvolti solo dei funzionari dello Stato e non livelli più alti. Le mie considerazioni vogliono essere uno stimolo a cercare coinvolgimenti che vadano oltre al questore La Barbera".

Ingroia torna con la memoria anche alla cattura di Riina e alla mancata perquisizione del covo, definendola "il segreto di Pulcinella. Se quella perquisizione non si è fatta - denuncia - è perché non si poteva fare e la condizione era: 'vi diamo Riina ma la casa non la dovete toccare'. Il collaboratore di giustizia Giovanni Brusca dice più volte che Riina, portava sempre con sé dei documenti, in qualunque casa andasse". 

L'ex Procuratore aggiunto di Palermo torna anche sulla figura di Scarantino. "Lo sentii perché ci fece sapere che aveva elementi su Contrada e Berlusconi e che sapeva che l'ex premier era coinvolto in un traffico di droga. Lo andammo a interrogare e lui raccontò che Contrada aveva fatto soffiate a indagati facendogli evitare gli arresti. Le sue parole avevano un'apparenza di verosimiglianza, per questo feci riscontri e accertai che mentiva. Però decidemmo che non ci fossero i presupposti per indagarlo per calunnia un po' anche per motivi di opportunità, perché la Procura di Caltanissetta lo avrebbe preso come un atto di guerra verso uno dei loro collaboratori principali". "Col senno di poi pensai - aggiunge - che poteva essere una polpetta avvelenata per colpire il processo Contrada perché se lo avessi presentato come testimone dell'accusa e poi avesse ritrattato o fosse venuto fuori che mentiva sarebbe stato un colpo per l'accusa".

  

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