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Venerdì, 19 Aprile 2024
Cronaca

Il "bunkerino" del palazzo di giustizia dove Falcone e Borsellino sono ancora vivi

Il museo realizzato dall'Anm nell'ufficio in cui i due magistrati lavorarono al Maxi compie 6 anni ed è stato visitato da oltre 30 mila persone provenienti da tutto il mondo. E' uno dei pochi veri luoghi di memoria, grazie all'impegno di Giovanni Paparcuri, sopravvissuto alla strage di via Pipitone Federico: "Oggi tutti si dicono amici, ma allora erano soli"

Sembra di sentire le loro voci che si rincorrono tra una stanza e l'altra, l'odore di fumo e si ha l'impressione che siano scesi solo un attimo per prendere un caffè o per mangiare un boccone, che di lì a poco varcheranno la porta dell'ufficio per tornare alle loro scrivanie. C'è un posto a Palermo dove Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, trucidati trent'anni fa nelle stragi di Capaci e via D'Amelio, sono in realtà ancora vivi ed è il museo che porta il loro nome, che si trova nel "bunkerino" al piano ammezzato del palazzo di giustizia, dove i due magistrati lavorarono negli anni Ottanta. Uno dei rarissimi luoghi di vera memoria che esistono in questa città, piena di lapidi che - nell'indifferenza e spesso nell'incuria - tentano vanamente di ricordare nomi e crimini atroci.

Il "bunkerino" dove lavorarono Falcone e Borsellino

L'officina del Maxiprocesso

Compirà sei anni domani, il museo, aperto al pubblico il 24 maggio del 2016 e che ad oggi è stato visitato (a dispetto della chiusura forzata per due anni legata alla pandemia) da oltre 30 mila persone, venute da ogni angolo del mondo. Molte di loro hanno lasciato un pensiero, una traccia, riempiendo due grossi libroni. L'altro giorno tra i visitatori c'era un ragazzo di Bologna che ha studiato nella prima scuola d'Italia intitolata ai due giudici e che, in vacanza a Palermo con la fidanzata, ha ritenuto che il minimo che potesse fare era venire a vedere il museo.

Non ci sono solo le scrivanie dei due magistrati, i loro oggetti personali, copie di atti fondamentali nella lotta a Cosa nostra, ma c'è anche quella che si potrebbe definire l'officina del Maxiprocesso, con tutte le apparecchiature (ormai preistoriche) utilizzate per catalogare e consultare documenti. E, soprattutto, c'è lui, Giovanni Paparcuri, sopravvissuto ad un'altra strage, quella in cui nel 1983 venne eliminato il giudice Rocco Chinnici (senza il cui intuito non sarebbe esistito alcun pool antimafia, è bene rimarcarlo) e che fu l'esperto informatico di quell'ufficio.

"Tutti amici dopo la morte, ma allora erano soli"

Un sopravvissuto, appunto, figura che simbolicamente lega il mondo dei morti a quello dei vivi. E Paparcuri li conobbe per davvero Falcone e Borsellino, ci lavorò con abnegazione e senza orari per anni, ne vide le delusioni e gli entusiasmi, il metodo investigativo e la correttezza. Ma anche - e soprattutto - la solitudine: "Non sono eroi - rimarca Paparcuri ai visitatori giunti da Milano, Como e Bologna che si apprestano a visitare il museo - ma uomini come noi, in carne ed ossa. Chiamarli eroi è solo un modo per procurarsi un alibi e raccontarsi che noi non possiamo fare nulla di concreto contro la mafia perché servono doti straordinarie che non possediamo". Ed è netto: "Il problema del dottore Falcone e del dottore Borsellino non era Cosa nostra, avevano scelto di fare i magistrati e sapevano a cosa andavano incontro, il problema erano i loro colleghi, le persone che lavoravano in questo palazzo in quegli anni e che sempre li osteggiarono. Una volta morti - dice senza mezzi termini - sono diventati tutti amici, conoscenti e collaboratori. Non è vero: erano soli".

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La memoria e la visitatrice in lacrime

La schiettezza di Paparcuri, la sua ironia, la passione - tratti che lo rendono inviso agli amanti delle passerelle, ai cultori dell'antimafia di facciata - sono l'anima del museo. E chi entra nel "bunkerino" ne esce cambiato, commosso, turbato: segno che ha fatto realmente i conti col passato (o che almeno ha iniziato), che l'esempio dei due magistrati può servirgli veramente da monito nella vita di tutti i giorni, che diventa una concreta base per il futuro. Che il processo di memoria funziona. Le reazioni possono essere particolarmente intense: "Una volta ho ritrovato una visitatrice in lacrime - racconta Paparcuri - si sentiva in colpa, mi disse che lei era una di quelle che all'epoca si lamentava per il rumore delle sirene delle scorte...".

Il sopravvissuto esperto di informatica

Spesso i visitatori non sanno neppure chi sia Paparcuri, non conoscono la sua storia. Ma c'è una piccola foto appesa nel "bunkerino" che raffigura proprio la macchina in cui si trovava il 29 luglio del 1983 e il suo sangue a terra. Racconta anche questo, spiegando come da lì si salvò e finì a lavorare con il pool antimafia: "Volevano congedarmi, ma il dottore Borsellino sapeva di questa mia passione per l'informatica e mi chiamò nella squadra".

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Il metodo Falcone

La prima banca dati del mondo contro Cosa nostra è stata creata qui, al "bunkerino", con strumenti che oggi fanno sorridere, macchine enormi e rumorose. "Quel casciabanco lì era il mio tablet", dice ridendo Paparcuri indicando un grosso computer ("servivano quattro persone per spostarlo"). Mostra poi un "planetario", antenato molto lontano dello scanner. Qui, nell'officina del Maxiprocesso, non c'è solo il primo caso di "digitalizzazione" degli atti investigativi, ma c'è anche lo sviluppo di un metodo, quello ormai famoso di "seguire i soldi". Sulla scrivania di Falcone ci sono alcuni degli assegni su cui il pool lavorò, studiando le girate e scoprendo dove i boss reinvestivano e nascondevano il denaro ricavato dalla fabbricazione e dallo smercio mondiale di eroina. "E poi i riscontri - spiega Paparcuri ai visitatori - perché i signori che hanno lavorato qui dentro procedevano ed arrestavano non sulla scorta di sospetti, ma di prove". 

Il rapimento della papera e il bigliettino d'amore

Durante la visita non solo viene ripercorsa la storia, citato l'impegno di tanti uomini e donne che hanno pagato con la vita il desiderio di cambiare questa terra, di liberarla, ma vengono raccontati tanti aneddoti. Il più divertente è quello del "rapimento della papera" (una di quelle che Falcone collezionava), che non sveliamo per chi non ha ancora visitato il museo. Il più toccante è il bigliettino che Francesca Morvillo, magistrato e moglie di Falcone che perse la vita con lui ("molti non sanno chi è la signora Francesca", dice rammaricato Paparcuri), gli lasciò in un libro. Una testimonianza d'amore e d'affetto straordinaria: "Quando la sorella del dottore Falcone, Maria, decise di far traslare la salma del fratello a San Domenico, separandolo dalla signora Francesca, misi il bigliettino dove riposa il dottore Falcone, un modo perché siano comunque sempre uniti", racconta ancora Paparcuri.

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Le bollette della Sip e l'impermeabile antiproiettile

E poi ci sono anche i retroscena piuttosto inquietanti: la carpetta "Bollette Sip" che, come spiega Paparcuri, "sono il conto presentato dopo la morte del dottore Falcone, fatture per il suo telefonino...", l'impermeabile antiproiettile che non venne mai utilizzato "perché furono fatte delle verifiche e si scoprì che in realtà non fermava i proiettili e la cosa assurda è che quando i poliziotti che avevano fatto le prove lo documentarono per poco non finirono sotto procedimento disciplinare".

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"I professionisti dell'antimafia"

Ma c'è anche, sia nella stanza che fu di Falcone che in quella di Borsellino, una copia del famoso articolo su "I professionisti dell'antimafia" scritto da Leonardo Sciascia nel 1987 per il Corriere della Sera: "Un grande intellettuale - afferma Paparcuri - ma io ho visto quanto hanno sofferto Falcone e Borsellino dopo quel pezzo, cosa ha provocato..." e non è disposto a "perdonare". Sono altre facce di quella "solitudine" che circondò i due magistrati.

L'ultima lettera di Borsellino

Nella stanza di Borsellino, poi, a una parete del museo realizzato dall'Anm di Palermo, c'è una lettera scritta di suo pugno e mai conclusa, si ferma al punto 4: "La scrisse all'alba del giorno in cui venne ucciso - spiega Paparcuri - in risposta ai rimproveri di una studentessa di Padova che si lamentava per la sua assenza a un incontro avvenuto diversi mesi prima. Il dottore Borsellino neanche sapeva di questo convegno, ma la mattina del 19 luglio del 1992 sentì il bisogno di rispondere a quelle 9 domande della ragazza... L'ultima era questa: 'Cosa possono fare i giovani?'". Ed è la domanda che rivolge quindi anche ai visitatori: "Cosa avrebbe risposto Borsellino che tanto credeva nei giovani? Cosa possiamo fare noi?" e la risposta viene istintivamente: "Il fatto di essere qui, di ricordare, di non lasciarli soli neanche ora...".

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