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Cronaca Politeama

"Fast fashion kills": mega scritta contro H&M in via Ruggero Settimo

L'azione di denuncia è stata rivendicata da un gruppo di attivisti per il clima in vista dello sciopero globale di domani. Sotto attacco il metodo di produzione: "Milioni di lavoratori in condizioni di sfruttamento, per non parlare dei danni ecologici"

"Fast fashion kills", ovvero la moda veloce uccide. La scritta è comparsa questa notte sulla vetrina del punto vendita di H&M di via Ruggero Settimo ed è stata rivendicata da un gruppo di attivisti per il clima del collettivo Studenti Palermitani. L'azione intrapresa - spiegano in una nota - vuole essere una denuncia contro l’industria tessile in vista dello sciopero globale per il clima di domani, giornata in cui si svolgerà un corteo studentesco con partenza alle 9 dal Teatro Massimo.

Il bersaglio degli studenti e delle studentesse non è casuale, la catena internazione rappresenta uno dei simboli dell’industria della moda “fast”, la moda del “made in Bangladesh”, dei capi a 5,99 euro e del Black Friday. "Una moda - spiegano - basata sulla produzione di abiti di bassa qualità a prezzi molto bassi, che prevede il lancio di nuove collezioni continuamente e in tempi brevissimi. Un metodo di produzione che più volte è stato posto sotto attacco soprattutto per i danni sociali che provoca: in tutto il mondo ci sono milioni di lavoratori – compresi gli impiegati nei negozi dei grandi brand, anche alle nostre latitudini – che lavorano in condizioni di sfruttamento, precarietà, con salari bassi o come tirocinanti non pagati".

Gli attivisti puntano il dito anche sui danni ecologici. "L’industria della moda - si legge in una nota diffusa dal collettivo Studenti Palermitani - è un’industria globale dal valore di 2,4 trilioni di dollari, che impiega circa 50 milioni di persone ed è considerata una delle industrie più inquinanti al mondo. È la seconda più inquinante dopo quella petrolifera. Basti pensare che il solo trasporto dell’industria dei jeans produce il 13% delle emissioni annue totali di CO2. E che solo per la realizzazione di una t-Shirt servono 2.700 litri d’acqua, pari al fabbisogno di una persona per tre anni. In più, si prevede che le emissioni di CO2 prodotte dall’industria della moda aumenteranno del 60% nei prossimi 12 anni". 

Le critiche non finiscono qui. "Un altro enorme danno ecologico - tuonano - è collegato alle risorse idriche, che riguarda lo smaltimento di tutte le sostanze tossiche con cui vengono trattati i capi di abbigliamento. Molte fabbriche espellono le acque inquinate nelle risorse idriche naturali avvelenando fiumi, mari e acque sotterranee. Il 20% dell’inquinamento delle risorse idriche mondiali - continuano - dipende dall’industria della moda. La pericolosità di questi scarichi ha effetti negativi sull’uomo, sugli animali e sull’ambiente circostante. La moda è direttamente collegata allo sfruttamento della terra e al processo di perdita della biodiversità attraverso lo sfruttamento del suolo. Questo tipo di produzione ha portato all’incremento dei consumi di indumenti in modo esponenziale: in Occidente compriamo abiti per il 400% in più rispetto a venti anni fa. Le grandi aziende - concludono -hanno delocalizzato i centri di produzione nei paesi sottosviluppati, dove la carenza di legislazione rispetto alla tutela ambientale e a quella lavorativa consente di produrre in modo devastante e col massimo sfruttamento di forza lavoro". 

Sul tema del surriscaldamento globale e del mutamento climatico, il 29 ottobre partirà la Cop26, la riunione in cui i leader mondiali si incontrano al fine di trovare soluzioni concrete all’emergenza climatica. "Ci scagliamo contro un sistema che produce nocività e devastazione. Contro le Cop, che rappresentano ormai palcoscenici in cui governanti e signori del fossile dichiarano di voler salvare il mondo, ma continuano a programmare politiche che guardano al profitto e non alla salute di territori e abitanti, che di certo non mettono in discussione modelli di produzione devastanti come quello dell’industria della moda".

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