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Giovedì, 28 Marzo 2024
Cronaca

L'omicidio Fragalà fu una punizione dei boss, ma per i giudici il pentito Chiarello è inattendibile

In 670 pagine la Corte d'Assise motiva la sentenza del 23 marzo: regge la versione di uno degli imputati, Antonino Siragusa, a cui i pm non hanno mai creduto. Bocciato invece il collaboratore che aveva fatto riaprire le indagini: "Mescola realtà e fantasia". Per la verità "determinanti i testimoni oculari"

E' passata senz'altro la tesi che la Procura ha sempre sostenuto, ovvero che l'avvocato Enzo Fragalà fu barbaramente ucciso a colpi di bastone perché Cosa nostra lo riteneva uno "sbirro" e intendeva dare una lezione "a tutta l'avvocatura palermitana", ma per la prima sezione della Corte d'Assise, presieduta da Sergio Gulotta (a latere Monica Sammartino), non sarebbe certo grazie al pentito "di punta" dell'accusa, cioè Francesco Chiarello, che si sarebbe arrivati alla verità: il collaboratore viene infatti giudicato "inattendibile" e non si esita a definire il suo comportamento "inquietante" ed "allarmante", visto che ha dimostrato di "saper perfettamente costruire nei minimi particolari un racconto che, per sua stessa ammissione, era tuttavia falso". La Corte ha invece creduto ad Antonino Siragusa, uno degli imputati che ad un certo punto aveva deciso di collaborare, al quale l'accusa, invece, non ha mai voluto dare retta.

Questo emerge - in estrema sintesi - dalle 670 pagine che motivano le condanne di Francesco Arcuri (24 anni), Antonino Abbate (30 anni), Salvatore Ingrassia (22 anni) e dello stesso Siragusa (14 anni), nonché le assoluzioni "per non aver commesso il fatto" di Paolo Cocco e Francesco Castronovo, arrivate il 23 marzo, a dieci anni dall'omicidio del penalista, avvenuto il 26 febbraio del 2010, a tre giorni dall'aggressione sotto il suo studio, in via Nicolò Turrisi, di fronte al palazzo di giustizia.

Cocco e Castronovo erano stati tirati in ballo proprio da Chiarello in una delle sue ultime versioni, mentre Siragusa da sempre ne aveva escluso il coinvolgimento. Chiarello è stato il pentito della svolta, quello che aveva consentito nel 2015 di riaprire le indagini sul delitto (per il quale erano stati già indagati Arcuri, Ingrassia e Siragusa, poi però archiviati). Ma per la Corte "le sue dichiarazioni sono apparse, per un verso, gravemente incoerenti ed incostanti e, per altro verso, prive di riscontri o persino contraddette da acquisizioni di senso contrario".

Il movente: la "punizione" di Cosa nostra

I giudici puntualizzano ancora una volta che la vecchia pista "passionale", secondo cui Fragalà sarebbe stato punito per delle avances alla moglie di un detenuto, non solo non ha trovato riscontri, ma "è stata smentita". Invece "proprio nell'esercizio dell'attività professionale risiede il movente dell'efferata aggressione", dice la Corte, e "intento precipuo dell'organizzazione mafiosa Cosa nostra era quello di impartire una punizione al professionista, 'reo' di aver assunto in procedimenti penali per reati di mafia posizioni non conformi agli interessi del sodalizio e per ciò appellato quale 'sbirro': colpevole dunque di aver esercitato liberamente il proprio mandato difensivo, senza condizionamenti esterni e secondo i canoni deontologici della propria professione, nell'esclusivo interesse della posizione processuale rappresentata". I giudici aggiungono che la "punizione, per le modalità attuative e la notorietà della vittima designata, doveva assumere una evidente valenza simbolica e dimostrativa" ed era "rivolta non già al solo professionista, ma anche all'intera avvocatura palermitana".

Il ruolo determinante dei testimoni oculari

Per i giudici, è risultato "assolutamente determinante ai fini della ricostruzione del gravissimo episodio, finendo per costituire un imprescindibile punto di riferimento, una 'cartina di tornasole' per la valutazione degli ulteriori elementi probatori" l'apporto dei testimoni oculari. Tutti hanno parlato di "un solo aggressore", che "appariva certamente corpulento ed impostato, di 'grossa stazza'" ed era "vestito di scuro ed indossava un casco". Chiarello era arrivato invece - non si sa come - a piazzare ben sei persone sulla scena del delitto, ma "della presenza di eventuali complici, persino a prescindere dalla loro identificazione, non v'è davvero alcuna traccia nel processo", si legge nelle motivazioni della sentenza.

Grazie ai testimoni oculari, inoltre, è "certa la dinamica complessiva del fatto: un uomo in piedi colpiva la vittima, la quale era già per terra, utilizzando un oggetto, verosimilmente un bastone di legno, con il quale infliggeva una pluralità di colpi con grande violenza". Per i giudici quell'uomo è Abbate, esattamente come riferito da Siragusa.

L'inattendibilità del pentito Chiarello

Il pentito Chiarello ha fornito più versioni dei fatti, anche del tutto incompatibili tra loro e questo "non ha consentito a questa Corte di formulare un giudizio di attendibilità delle sue dichiarazioni apparse, per un verso, gravemente incoerenti ed incostanti e, per altro verso, prive di riscontri o persino contraddette da acquisizioni di senso contrario". In prima battuta, infatti, Chiarello aveva detto che Cocco avrebbe portato il bastone, poi lo aveva indicato come aggressore; così come aveva parlato di "coccodrillo", cioè Castronovo, solo nell'ultima versione, sostenendo addirittura che si fosse presentato a casa sua la sera del delitto con gli abiti sporchi di sangue. I due - la cui unica fonte di accusa era alla fine proprio Chiarello - sono stati assolti e il comportamento del pentito viene definito "allarmante" dai giudici e diventa "davvero inquietante" quando Chiarello, "nel rivendicare sostanzialmente la 'correttezza' del proprio operato, quasi dimostrandosi offeso, mostrava di ritenere giustificato il proprio cambiamento di versione perché 'lo sto dicendo prima dei 180 giorni', con evidente riferimento al termine previsto dalla legge per raccogliere le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia", ma è "pacifico che la fissazione di tale termine non legittimi certo il dichiarante a poter 'fare e disfare' a proprio piacimento purché nei detti limiti temporali".

"Mescola realtà e fantasia, verità e bugia"

Un racconto, quello di Chiarello, in cui, secondo i giudici, "la realtà si mischia con la fantasia, la verità con la bugia, in un connubio difficilmente scindibile e distinguibile". Per la Corte, inoltre, il pentito avrebbe usato i suoi appunti manoscritti come "un vero e proprio 'canovaccio'" e "la nuova versione (quella con Cocco e Castronovo, ndr) è un mero, ulteriore tentativo di 'aggiustare' artatamente l'orginario racconto falso, costruendone uno, a suo avviso, più credibile". I giudici stigmatizzano "il palese contrasto tra la sua ultima versione dei fatti e la scena del crimine risultante pacificamente da tutte le dichiarazioni dei testimoni oculari" e per questo formulano "un giudizio di non attendibilità delle dichiarazioni rese dal collaboratore Francesco Chiarello, senza che ciò possa ritenersi in alcun modo superabile, né in concreto superato, attraverso la ricerca e l'esame dei riscontri di carattere estrinseco".

"Siragusa dice il vero: così fu ucciso l'avvocato"

Per la Corte è invece "certamente positiva la valutazione di credibilità di Siragusa e di attendibilità delle sue dichiarazioni, le quali peraltro risultano anche assai significativamente confermate da riscontri esterni, davvero specifici e puntuali: ciò che ha consentito una compiuta ricostruzione della dinamica del delitto, delle sue motivazioni e delle responsabilità individuali". Come lui stesso ha confessato - ma per i pm non è mai risultato credibile - Siragusa quella sera aveva chiamato lo studio Fragalà per verificare i movimenti dell'avvocato. Era stato lui a portare con la sua Smart Abbate in via Turrisi. Questi si era messo il casco ed aveva aggredito la vittima a bastonate. Secondo Siragusa, Abbate al posto di risalire poi sull'auto era invece salito sullo scooter di Ingrassia e insieme avevano gettato il bastone in una campana per la raccolta differenzia in via La Farina, che qualche giorno dopo era stata data alle fiamme (un episodio riscontrato). La sera dell'omicidio avevano infine incontrato Cocco e Castronovo, ma i due non sapevano nulla del delitto. Mandante dell'omicidio è Arcuri. Per la Corte, Siragusa "ha dimostrato di voler raccontare i fatti nella loro reale consistenza, senza alcuna enfatizzazione o indiscriminata generalizzazione".

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