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Cronaca

Dalla guerra in Russia "col ghiaccio alla gola" al traguardo dei 100 anni: la vita da film di nonno Riccardo

Un'esistenza che ha attraversato il secondo conflitto mondiale fino ad arrivare all'incubo dell'era Covid. Ha deciso di raccontare la sua esperienza al fronte in un libro dopo 70 anni di silenzio: "Non so quanto abbia pianto mentre scrivevo, le sofferenze sono incise nella carne"

Grande traguardo per Riccardo Di Raimondo, nonnino palermitano che domani compirà 100 anni. Una vita da film. Un'esistenza che ha attraversato la seconda guerra mondiale fino ad arrivare all'incubo dell'era Covid. Di Raimondo nel 1942, quando aveva 20 anni, ha affrontato la terribile esperienza di soldato in Russia. Un'esperienza indimenticabile ("a meno quaranta gradi, senza indumenti adeguati, senza un riparo con l’Armata Rossa alle calcagna"). Ritornato in patria nel 1943 e terminata la guerra ha quindi ripreso gli studi interrotti diplomandosi perito tecnico. 

Dopo varie vicissitudini personali e familiari, è entrato all’Industria Chimica Arenella di Palermo, dove ha lavorato per 40 anni, in qualità di dirigente responsabile degli impianti. Sposatosi con Lidia Chiovaro, è diventato padre di tre figli, Angelo, Adriana ed Ernesta. Terminata l’esperienza alla Chimica Arenella è stato chiamato come consulente tecnico a Sciacca dalla Società Sciacca Mare di Abano Terme (Padova), per avviare gli alberghi della società. Ha lavorato lì fino al 1994, a 75 anni. L'anno dopo il primo grande dolore: la morte della sua compagna di vita e moglie. Nel 2005 è invece morto tragicamente l’unico figlio maschio, Angelo.

Adesso vive a Cinisi con una figlia, Adriana. L’altra, Ernesta abita a Palermo con la sua famiglia. Nonno Riccardo ha tre nipoti: Giulia e Flavia le figlie di Ernesta, e Greta, figlia di Angelo. Alla veneranda età di 90 anni, Riccardo Di Raimondo ha deciso di scrivere un libro, trovando il coraggio per rivivere ciò che per tanti anni aveva  cercato di dimenticare. Domani lo splendido traguardo dei 100 anni.

Ecco una pagina del libro

Sicilia, settembre 1943. Il profilo di un uomo si delinea all’orizzonte. Cammina sotto il peso dello zaino. Le gambe dolenti, scene orribili vibrano nelle pupille, la sua pelle gioisce per il tepore dell’estate. Quell’uomo è Riccardo Di Raimondo, ha attraversato a piedi l’inferno, e ne è uscito vivo.

Da quel terribile inverno, a cavallo tra il 1942 e il 1943, sono passati settant’anni. Riccardo Di Raimondo ripensa alle migliaia di chilometri percorsi nel ghiaccio, e ancora non riesce a spiegarselo. «Eravamo a quaranta sottozero, senza indumenti adeguati, senza un riparo». L’Armata Rossa alle calcagna, davanti solo la neve, marciando in colonna, vedendo i propri compagni «cadere come mosche», senza poter far nulla. Avanzando nel ghiaccio e nel fango sperando di non essere il prossimo, col terrore che ti assale al calar della notte, perché restare fuori vuol dire crepare, morire assiderati a migliaia di chilometri da casa.
“La ritirata di Russia – Dal fiume Don a Varsavia (1942-1943)” è il racconto di quei mesi di orrore, corredato di fotografie scattate dallo stesso autore. «È tutta verità, non c’è una virgola che non sia verità», sottolinea Di Raimondo.
Come tutti i libri, anche questo comincia dalla prima pagina. Ma stavolta non è così semplice. Prima del racconto, c’è il silenzio. Quello di Riccardo Di Raimondo è durato settant’anni.

 «Quando sentivo parlare della Russia, cercavo di pensare ad altro. Ho taciuto, non volevo scrivere. Ma come sono uscito da quell’inferno? Perché quello era l’Inferno, non la Terra. I soldati ci sparavano, i russi ci inseguivano, il freddo ci martoriava, la fame non ci lasciava mai.

Non so quanto abbia pianto, mentre scrivevo il libro. Per questo non volevo farlo. Le sofferenze sono incise nella carne. E per questo che l’ho scritto a 90 anni. Perché io volevo dimenticare. Non per quello che avevo sofferto, ma per quello che avevo visto. La carneficina… Soldati sventrati, soldati senza gambe, soldati senza testa, buttati a terra, con le viscere riversate sul terreno. Cose indescrivibili… e io quando sono rientrato ho detto “Voglio dimenticare”».

Riccardo di Raimondo ha scritto per loro. È per loro che sono morti con il ghiaccio nella gola che Riccardo ha trovato il coraggio di parlare, di raccontare una storia che nessuno voleva sentire, nemmeno le autorità politiche. «Togliatti non voleva che si sapesse quello che avevamo passato. Della Campagna di Russia degli italiani se n’è parlato poco».
Senza fucile, armato di una macchina fotografica che tiene accanto a due bombe a mano, il giovane ragazzo di Sicilia, venuto dalla terra del sole e prigioniero del regno del ghiaccio, comincia la sua lunga marcia in compagnia della morte. Andare avanti sembra impossibile, ma fermarsi significa morire. E allora vai, Riccardo, ancora un altro passo. Senti il ghiaccio che si rompe sotto il tuo stivale esausto, senti il vento che porta l’urlo del cosacco, mentre un altro uomo cade e la neve lo inghiotte.
Eppure, nel cuore freddo del dolore, c’è ancora l’uomo, sotto il fango e i pidocchi c’è ancora l’uomo. Riccardo rallenta, rischia la vita, ma riesce a salvare il suo amico Zuccarello, che si riprende dalla polmonite. Riccardo ama, perché «proprio quando tutto sembra essersi fermato, il corpo torna a vibrare e ancora una volta la vita si impone». Ma un soldato straniero non può farsi trovare nell’isba di una contadina ucraina, perché i russi non la perdonerebbero e la ucciderebbero senza pietà. La separazione è inevitabile, «e il dolore che ne sarebbe derivato, devastante. Nulla viene risparmiato a un soldato: anche le gioie più belle e pure finiscono col generare altro dolore». Di Lidia resta una fotografia; il suo sorriso risplende ancora in quella vecchia foto sbiadita.

Riccardo Di Raimondo era dentro a quel pugno di uomini gettati dai potenti sulla scacchiera fatale del Secondo Conflitto Mondiale, dentro alle fauci spalancate dell’abisso. Il regime fascista prevedeva una trionfale cavalcata negli spazi orientali al fianco della Wermacht. Ma la storia è andata altrove, e i Panzer sono finiti nel fango. L’impossibilità di raggiungere Stalingrado, fortezza russa che custodiva risorse petrolifere essenziali per continuare la guerra, significa la sconfitta. Lo capiscono tutti, anche Mussolini, che ordina il ritiro delle truppe. Ma ormai è troppo tardi.

Il rientro a casa è un viaggio senza fine. Quasi 200 mila uomini su 270 mila non ce l’hanno fatta. Sono ancora lì, nel ghiaccio, con gli occhi chiari spalancati, a pregare per una salvezza che non arriverà mai. Riccardo Di Raimondo ha scritto per loro. È sopravvissuto per loro. Ha pianto su queste pagine per loro. Per quei 200 mila cuori che hanno smesso di battere nel gelo di un campo sterminato. 200 mila anime lo ringraziano, perché continuare a vivere nelle sue parole è l’unico modo che gli resta per tornare a casa.


 

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