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Venerdì, 29 Marzo 2024
Mafia

Processo Trattativa, la Cassazione conferma le assoluzioni dei carabinieri e dichiara prescritti i boss

La sentenza emessa dalla sesta sezione, che non ha accolto le istanze del procuratore generale, che aveva chiesto un appello bis per gli ex vertici del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno. Cancellate le pene per Leoluca Bagarella e Antonino Cinà perché il reato è stato ritenuto soltanto tentato. Scagionato anche Marcello Dell'Utri

Confermate le assoluzioni per gli ex vertici del Ros, Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno (con la formula piena "per non aver commesso il fatto", anziché "perché il fatto non costituisce reato"), nonché per l'ex senatore di Forza Italia, Marcello Dell'Utri; prescritte invece le condanne inflitte al boss Leoluca Bagarella e all'ex medico e uomo di fiducia di Totò Riina, Antonino Cinà. E' questa la decisione della sesta sezione della Cassazione in relazione al processo sulla così detta Trattativa tra pezzi deviati dello Stato e Cosa nostra. Una delle vicende giudiziarie più contorte e mediatiche degli ultimi anni, nata sulle ceneri delle assoluzioni legate sia alla mancata perquisizione del covo di via Bernini del "capo dei capi" Totò Riina, nel 1993, che alla mancata cattura di Bernardo Provenzano nel 1995 a Mezzojuso. 

Trattativa, le reazioni dei carabinieri assolti

I giudici non hanno dunque accolto l'istanza del procuratore generale che, lo scorso 14 aprile, aveva chiesto alla Suprema Corte di annullare con rinvio la sentenza e che si celebrasse dunque un nuovo processo d'appello per gli ex ufficiali del Ros, che sono difesi dall'avvocato Basilio Milio, e di confermare invece l'assoluzione per l'ex senatore di Forza Italia, Marcello Dell'Utri (già condannato in via definitiva in un altro processo per concorso esterno in associazione mafiosa). Le condanne inflitte ai mafiosi sono state adesso spazzate via dalla prescrizione perché il reato è stato ritenuto solo tentato e non consumato. Insomma - questo si può dedurre dal dispositivo - non ci fu alcuna Trattativa, anche se i boss provarono ad intavolarla, e i militari non si fecero veicolo del ricatto mafioso allo Stato. Neanche "a fin di bene" come avevano stabilito i giudici d'appello. 

L'ex pm Ingroia: "Lo Stato si autoassolve, non è un bel segnale"

Secondo l'accusa, la presunta trattativa sarebbe avvenuta per far cessare le stragi degli anni Novanta. Il reato contestato era quello di violenza o minaccia a Corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato. Tuttavia l'uomo che, secondo la ricostruzione degli inquirenti, avrebbe innescato la Trattativa, l'ex ministro Calogero Mannino, che è stato processato con il rito abbreviato, è stato assolto in tutti i gradi di giudizio. Le indagini - che adesso, in via definitiva, sono state smontate - furono coordinate all'epoca dal procuratore Francesco Messineo (oggi in pensione), dall'aggiunto Antonio Ingroia (oggi avvocato) e dai sostituti Nino Di Matteo (oggi al Csm), Vittorio Teresi (in pensione pure lui) e Roberto Tartaglia (passato prima al Dap e poi a Palazzo Chigi). All'inchiesta partecipò anche l'attuale procuratore aggiunto Paolo Guido che, tuttavia, in disaccordo con i colleghi, rifiutò di firmare l'avviso di conclusione.

Il superteste inattendibile e gli eroi mediatici: a cosa è servito il processo?

La sentenza di primo grado

In primo grado, il 20 aprile del 2018, la Corte d'Assise presieduta da Alfredo Montalto (a latere Stefania Brambille) aveva inflitto 28 anni al boss Leoluca Bagarella, 12 anni ciascuno proprio a Mario Mori ed Antonio Subranni, nonché a Dell'Utri e all'ex medico e uomo di fiducia di Totò Riina, Antonino Cinà. Otto anni la pena per De Donno, la stessa inflitta - ma per il reato di calunnia - a Massimo Ciancimino, figlio dell'ex sindaco mafioso di Palermo, Vito, inizialmente supertestimone poi giudicato "inattendibile", che era stato contestualmente scagionato dall'accusa di associazione mafiosa. Era stata poi sancita l'assoluzione (definitiva da tempo e mai impugnata) per l'ex ministro Nicola Mancino (che era finito sotto processo per falsa testimonianza) e dichiarata la prescrizione per il pentito Giovanni Brusca. I giudici ritennero quindi pienamente provate le accuse, costruite soprattutto sulle presunte rivelazioni di Ciamcimino (che tuttavia, come era emerso nel processo precedente sulla mancata cattura di Provenzano, aveva consegnato agli inquirenti documenti falsificati in modo grossolano e mai fatto avere il famoso "papello", di fatto mai ritrovato, su cui si sono imbastiti tanti teoremi) e quelle - decisamente tardive - di Brusca (nel frattempo tornato libero). 

La sentenza d'appello

In appello, il 23 settembre del 2021, la Corte presieduta da Angelo Pellino (a latere Vittorio Anania) aveva deciso di rivedere il verdetto: era stata così sancita l'assoluzione "perché il fatto non costituisce reato" degli appartenenti al Ros, ma anche di Dell'Utri, e ridotta da 28 a 27 anni la condanna di Bagarella. Confermata integralmente invece la condanna di Cinà. Nel frattempo era andata prescritta la condanna di Ciancimino. In questo caso i giudici ritennero quindi che la Trattativa per fermare le stragi ci fosse stata, ma che il Ros, pur agendo in maniera "spregiudicata" lo fece "per fini solidaristici", cioè a tutela della collettività. 

Ecco perché sono stati assolti i carabinieri

"La trattativa fu un'improvvida iniziativa"

In base alle motivazioni della sentenza d'appello - che il procuratore generale Lia Sava aveva definito "illogiche e lacunose" nel ricorso in Cassazione - la Trattativa sarebbe stata "un'improvvida iniziativa" (con un "grave errore di calcolo" che si rivelò "sciagurato") e che sarebbe stata "intrapresa in totale spregio ai doveri inerenti l'ufficio e i compiti istituzionali" da parte degli ufficiali del Ros. Che, tuttavia, quando nell'estate del 1992 presero i contatti con l'ex sindaco Vito Ciancimino, "furono mossi da fini solidaristici (la salvaguardia dell'incolumità della collettività nazionale) e di tutelare un interesse generale - e fondamentale - dello Stato". Cioè "far cessare le stragi", "fermare l'escalation di violenza mafiosa". E proprio per questo Mori, Subranni e De Donno erano stati assolti. Il ragionamento nelle motivazioni era chiaro: furono i boss a minacciare lo Stato con le bombe per piegarlo, mentre nel caso degli ex vertici del Ros non ci fu mai l'intenzione, il dolo, di assecondare una simile strategia.

"Nessuna influenza sull'attentato a Paolo Borsellino"

Le conseguenze sulla strage di via D'Amelio

In primo grado, poi, era stato stabilito che ad accelerare la strage di via D'Amelio, in cui morirono il giudice Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta, sarebbe stata proprio la scoperta da parte del magistrato della Trattativa. Una ricostruzione che, invece, non aveva convinto i giudici d'appello: questa idea "appare frutto di una chiara forzaturadi tutti i dati disponibili", aveva scritto infatti la Corte, anche perché non necessariamente, nella strategia di attacco frontale allo Stato, Cosa nostra avrebbe dovuto avere "una tabella di marcia". Nelle motivazioni della sentenza si leggeva: "E' tempo di chiedersi se sono sia sbagliato interrogarsi sulle cause della presunta accelerazione della strage; l'errore, cioè, prima che nelle diverse risposte che sono state date, si anniderebbe già nella domanda". I giudici rimarcavano poi con sarcasmo: "Come se esistesse un prontuario delle stragi (mafiose) che insegni quale sia il tempo canonico che è opportuno far passare tra una strage e l'altra".

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