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La Rai condannata a pagare il boss Graviano: arriva la diffida

Il boss palermitano era stato ripreso dalle telecamere senza consenso durante un processo in corte d'Assise. Poi il ricorso e la condanna al risarcimento di 8 mila euro per danno all'immagine. Ma a distanza di nove mesi la Rai non ha ancora versato le somme

Aveva detto di non voler essere ripreso dalle telecamere durante un processo di corte d'Assise in corso nel carcere di Rebibbia. Gli operatori della Rai però girarono ugualmente le immagini che, successivamente finirono in rete. Per questo la Rai a febbraio fu condannata dal Tribunale civile di Roma a risarcire con 8 mila euro Giuseppe Graviano, 54 anni, accusato di mafia, per danno all'immagine, nonché a versare 3 mila euro, come compenso professionale, ai due legali del boss. Ma a distanza di nove mesi la Rai non ha ancora versato le somme. Per questo motivo a causa del mancato versamento delle somme, gli avvocati hanno inviato una diffida alla Rai, che, se non pagherà entro 8 giorni, subirà l'azione di "recupero forzoso".

L'azienda del servizio pubblico era stata condannata dalla prima sezione civile del tribunale di Roma (fu così accolto il ricorso del capomafia presentato dagli avvocati Francesco Vinci e Federico Vianelli). Il presidente del collegio che celebrava il processo ribadì che Graviano non aveva prestato il consenso, obbligatorio per legge. Il danno all'immagine è stato riconosciuto in quanto Graviano - l'8 marzo 2011 - nell'aula bunker del carcere di Rebibbia, dove si era recata la Corte d'Assise di Palermo, non aveva prestato il consenso ad essere inquadrato nel confronto con Gaspare Spatuzza.

Il presidente della Corte, dopo il rifiuto di Graviano a essere inquadrato, aveva autorizzato le riprese in aula, senza però riprendere l'imputato. Ma poche ore dopo, nel corso di un servizio sull'udienza, il Tgr mostrò il volto di Graviano. La Rai ha sempre sostenuto di avere esercitato legittimamente il diritto di cronaca, considerato che si trattava di un importante processo di mafia. Il giudice però non ha accolto questa tesi, dando ragione al boss palermitano, ex reggente del mandamento di Brancaccio-Ciaculli.

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