La processione e la sosta della "vara" sotto casa Riina, i giudici: "Sovvertiti i valori religiosi"
Le motivazioni della sentenza con cui la Cassazione ha condannato a 6 mesi Leoluca Grizzaffi, 43 anni, parente del boss, che aveva ordinato ai confratelli di fermarsi due volte davanti all'abitazione di Corleone, a maggio del 2016. "Fu un ossequio al mafioso, strumentalizzata la funzione e leso il sentimento della collettività dei fedeli"
"Ha strumentalizzato una processione religiosa a fini del tutto contrari al sentimento di coloro che vi partecipavano e comunque ai valori universalmente espressi e riconosciuti dalla religione cattolica, sovvertendoli completamente", è questa in sintesi la motivazione con la quale la terza sezione della Cassazione, presieduta da Elisabetta Rosi, ha deciso di confermare la condanna a 6 mesi per Leoluca Grizzaffi, 43 anni, il "capo vara" - nonché parente di Totò Riina, il "capo dei capi" di Cosa nostra, deceduto al 41 bis a novembre 2017 - perché durante la processione in onore di San Giovanni Apostolo e Evangelista, aveva ordinato due brevi soste proprio davanti alla casa della moglie del boss, Ninetta Bagarella, a Corleone. L'episodio era avvenuto il 31 maggio del 2016.
La sentenza, che era stata emessa il 23 ottobre del 2018 dal tribunale di Termini Imerese e che era stata poi confermata in appello il 19 giugno del 2020, ha retto dunque in tutti i gradi di giudizio. La Suprema Corte aveva emesso il suo verdetto lo scorso ottobre, ma ora sono state depositate anche le motivazioni di quella decisione, con cui l'imputato è stato anche condannato a pagare le spese processuali.
La difesa: "Episodio frainteso, non ci fu alcun inchino"
Grizzaffi chiedeva l'annullamento della condanna perché quelle soste "non possono essere ritenute interruzione di una funzione religiosa o turbativa della stessa, in assenza di segni manifesti quali 'inchini', soste lunghe, ossequi alle persone, specifiche preghiere ad personam che nemmeno il capo d'imputazione ipotizza", spiegando che "il fatto è stato frainteso perché si era trattato di una comune consuetudine usata dai fedeli per riposare o attendere il cambio da altri confratelli".
L'accusa: "Il fercolo si fermò e al balcone c'erano i parenti del boss"
Per i giudici però il ricorso è infondato. Le due brevi soste - come sancito dalle sentenze di primo e secondo grado - erano state ordinate, senza alcun motivo, dal "capo vara", cioè l'imputato, figlio della cugina di Ninetta Bagarella. Per pochi secondi, il fercolo si era fermato prima all'altezza del civico 22 della via Scorsone e poi all'altezza del 24. La strada nel 2018 è stata poi intitolata al giudice Cesare Terranova. Al momento del passaggio della processione - avevano rilevato gli inquirenti - "l'abitazione era insolitamente illuminata, le finestre aperte e vi erano affacciate due sorelle di Ninetta Bagarella ed una sorella di Riina (nelle processioni svolteri negli anni precedenti l'abitazione era sempre rimasta chiusa durante il passaggio della processione)".
I giudici: "Leso il sentimento religioso della collettività dei fedeli"
Nella sentenza, la Cassazione ripercorre la storia del reato contestato - cioè quello di aver turbato una funzione religiosa - che, da offesa contro "la religione dello Stato" (specie durante il Fascismo), è stato poi ricondotto tra quelli contro la libertà individuale, in particolare quella religiosa, e rimarcano "la dimensione 'spirtuale' del bene protetto, la cui tutela non consiste tanto (e solo) nell'assicurare la materiale regolarità della funzione religiosa, quanto anche nell'impedire che essa possa essere distolta, utilizzata per scopi che offendono o sono in contrasto con la sensibilità religiosa dei fedeli che vi partecipano e con i valori espressi dalla fede professata". Tanto che "il suo vilipendio o danneggiamento lede soprattutto il sentimento religioso della collettività dei fedeli".
"Sovvertiti completamente i valori cattolici"
"Nel caso di specie - affermano ancora i giudici - si tratta di due soste effettuate senza alcuna giustificazione davanti all'abitazione di congiunti stretti di Totò Riina, ordinate dall'imputato. In tale contesto non rileva la circostanza che la moglie di Riina non fosse fisicamente presente in quel momento; rileva la materialità del gesto che, come ossequio ad un esponente di spicco della criminalità mafiosa, ha strumentalizzato una processione religiosa a fini del tutto contrari al sentimento di coloro che vi partecipavano e comunque ai valori universalmente espressi e riconosciuti dalla religione cattolica, sovvertendoli completamente e integrando a tutti gli effetti il reato contestato"
"Ossequi a un mafioso, l'inchino avrebbe solo aggravato il gesto"
In conclusione, quindi, "la processione - sostiene la Cassazione - si è fermata per rendere omaggio all'abitazione di uno storico capomafia e, dunque, al capomafia stesso. Il fatto che non sia stato effettuato il così detto 'inchino' costituisce una mera variabile che non esclude, in sua assenza, la materialità del fatto: l'inchino, semmai, l'avrebbe solo reso più grave".