Procurò l'esplosivo per la strage di Capaci, la Cassazione apre ai permessi premio per un boss
L'istanza di Giuseppe Barranca, all'ergastolo anche per gli attentati di Milano, Firenze e Roma, era stata bocciata dal tribunale di Sorveglianza di Milano. Per la Suprema Corte sarebbero stati espressi solo giudizi etici e non sarebbe stata fornita la prova della sua attuale pericolosità: "Non si può basare il rigetto solo sulla mancata decisione di collaborare"
E' chiuso in carcere da oltre 25 anni ed è stato condannato all'ergastolo tra l'altro per aver procurato l'esplosivo che, il 23 maggio del 1992, servì per far saltare per aria il tratto di autostrada all'altezza di Capaci e uccidere il giudice Giovanni Falcone, la moglie, magistrato anche lei, Francesca Morvillo, e gli agenti di scorta. Giuseppe Barranca, 66 anni, recluso ad Opera e al quale è stato già revocato il 41 bis, chiede adesso di poter accedere anche ai permessi premio: un beneficio che gli è già stato negato dal tribunale di Sorveglianza di Milano. Ma la Cassazione - per la seconda volta - ha annullato con rinvio il provvedimento per vizio di motivazione, ritenendo che non sia stato valutato correttamente un dato fondamentale (come previsto dalla storica sentenza della Corte costituzione del 2019): l'attualità dell'eventuale pericolosità del detenuto.
"Rigetto dell'istanza ispirato a moralismi"
Un'apertura alla richiesta di Barranca, dunque, quella dei giudici della quinta sezione della Suprema Corte, presieduta da Maria Vessichelli, che bacchettano i colleghi che avrebbero fatto "osservazioni ispirate a moralismi", si sarebbero dilungati "nello stigmatizzare la scelta di non collaborazione di Barranca", e avrebbero "orientato la loro decisione di rigetto del reclamo su una valutazione 'morale'", finendo per eludere proprio i dettami della Consulta.
"Rispettare la linea dettata dalla Corte costituzionale"
"Pur nella consapevolezza - si legge nella sentenza - della delicata e sottile linea di confine che, in relazione a posizioni detentive così peculiari, separa le valutazioni giuridiche sulla pericolosità sociale dal giudizio di condanna morale per i gravi delitti commessi" la Cassazione richiama "la necessità per il giudice di sorveglianza di verificare la meritevolezza dei permessi premio secondo le direttrici interpretative tracciate dalla Corte costituzionale con un esame in concreto di elementi di fatto 'individualizzanti' del percorso carcerario del detenuto dai quali si possa desumere non già (o meglio, non necessariamente) un'emenda intima, personale ed umana del proprio passato, bensì la proiezione attuale a recidere i collegamenti criminali mafiosi e a non riattivarli nel futuro, in una prospettiva dinamica di rieducazione e recupero del detenuto, monitorata attraverso un esame a tutto campo della sua vita". Questo "fermo restando ovviamente il potere di esprimere nuovamente una decisione di rigetto del reclamo".
La difesa: "E' un detenuto modello, nessun collegamento mafioso"
Insomma, la Cassazione (come già aveva fatto l'anno scorso) chiede elementi concreti che dimostrino che Barranca non possa godere dei permessi premio perché in quei frangenti potrebbe riallacciare i contatti con Cosa nostra e tornare a delinquere. L'ergastolano, elemento di spicco del mandamento di Brancaccio, ha partecipato non solo alla strage di Capaci, ma anche a quelle di Milano, Firenze e Roma. Tuttavia, come ha sostenuto anche la difesa di Barranca nelle ultime sentenze su quel clan lui non è mai menzionato, che non è mai stato indagato per nuovi reati e avrebbe aderito pienamente al trattamento rieducativo, tenendo uno stile detentivo esemplare. Mancherebbe dunque l'attualità dei collegamenti mafiosi.
Per la Suprema Corte il ricorso è fondato
Un ricorso che è stato ritenuto fondato dalla Cassazione, che mette in evidenza come già una prima volta il rigetto dell'istanza di Barranca da parte del tribunale di Sorveglianza di Milano era stato annullato con rinvio proprio perché non si sarebbe confrontato con la decisione della Consulta del 2019. Un errore che sarebbe stato nuovamente commesso perché "il provvedimento impugnato - dice la Suprema Corte - si è posto al di fuori dei chiari criteri enunciati, coerenti con la cornice di legalità costituzionale, dando vita ad una motivazione dalla matrice spiccatamente eticizzante, che indulge in più punti ad osservazioni ispirate da moralismi, quasi puntando all'emenda del condannato da un punto di vista personale ed intimo. Una simile sovrastruttura di pensiero dell'apparato motivazionale del provvedimento impugnato lo ha reso incapace di rispondere a quelle istanze di concreta verifica della pericolosità personale del ricorrente".
"La scelta di non collaborare non basta"
"La nota del 15 gennaio del 2021 dell'Anticrimine di Palermo - scrive ancora la Cassazione - in cui si fornisce la storia criminale del ricorrente, 'uomo d'onore' della famiglia di Brancaccio, inserito 'ad altissimo livello' in Cosa nostra diventa mero pretesto di attualizzazione della sua pericolosità, senza esame degli elementi concreti che denotino la perdurante sussistenza di tale pericolosità, poiché se ne mette in luce, anzi, soltanto il portato negativo di mancata dissociazione, di mancato rifiuto del vissuto criminale mafioso, di assenza di volontà riparatoria nei confronti delle vittime dei reati, che 'possano quanto meno prefigurare la cessazione del legame di appartenenza al sodalizio mafioso', così facendo coincidere i contenuti della verifica concreta, nuovamente ed illegittimamente, con la scelta collaborativa che la Corte costituzionale ha inteso superare".
"Non si tiene conto del percorso del detenuto, che ha riconosciuto i suoi sbagli"
Inoltre "il provvedimento impugnato, nonostante dia atto di un percorso intramurario ineccepibile del condannato - esente da rilievi disciplinari, improntato alla partecipazione al trattamento, alla formazione scolastica ed alla disponibilità all'attività lavorativa - nonché della recente relazione di sintesi del carcere di Opera del 14 giugno 2021 con cui si attesta quanto e come il condannato abbia riconosciuto i propri sbagli 'rovinandosi la vita' e sia conscio del proprio passato criminale, dei reati gravissimi commessi, inserendo la scelta delinquenziale in un contesto difficile di bisogno economico famigliare dopo la morte del padre, ritiene di orientare la sua decisione di rigetto del reclamo su una valutazione 'morale' di insufficienza di tali riscontri positivi della personalità del ricorrente rispetto al 'peso' di quanto commesso, e cioè 'all'enorme sproporzione tra le condotte delittuose e l'appartenenza mafiosa ad altissimo livello, da un lato, e la ripresa di una vita corretta e coerente in carcere'".
Ma "se questo fosse l'intento del legislatore costituzionale, non vi sarebbe alcuna possibilità di garantire la rieducazione attraverso percorsi di benefici carcerari di qualsiasi genere: la gravità di taluni reati - non certo solo delle stragi commesse dal ricorrente, ma anche di omicidi o altri delitti - impedirebbe, infatti, di per sé di operare un bilanciamento favorevole rispetto a percorsi carcerari positivi ed alla presa di distanza dalle associazioni mafiose di appartenenza".
"Servono elementi concreti, non valutazioni etiche"
Secondo la quinta sezione della Cassazione "egualmente fuori fuoco è il richiamo dell'ordinanza all'assenza di 'pentimento' per il dolore provocato alle vittime dei reati, desunta dalla mancanza di 'parole' sintomatiche da parte del ricorrente, per questo giudicato sostanzialmente 'insensibile' a tale profilo di emenda, ovvero alla mancata presa di distanze dal fenomeno criminale che lo ha visto protagonista negativo, desunta anch'essa dal fattore lessicale del mancato riferimento al termine 'mafia'". E, secondo la Suprema Corte così "il tribunale cerca surrettiziamente nel ricorrente l'espressione di una qualche forma di 'collaborazione', sia pure nelle limitate sembianze della 'presa di distanza' etica e morale da Cosa nostra, e non procede, come avrebbe dovuto, a verificare in concreto il suo percorso di riabilitazione carceraria e le attuali tracce di una sua appartenenza mafiosa, ovvero di una sua riapertura, ora o in futuro, a dinamiche e logiche mafiose".
"Occorre una nuova valutazione"
Nella sentenza sono poi riportate proprio le parole del tribunale di Sorveglianza di Milano: "Non si può negare che il condannato sembra porsi sulla strada giusta, ma nel contempo questa strada va percorsa fino in fondo, uscendo dalla vaghezza del pensiero e del rammarico personale, per prendere una posizione nette e senza equivoci sui delitti commessi, sul male e sul dolore causato, sul fenomeno mafioso e sulla sua appartenenza, con modalità tali da dimostrare l'interiorizzazione di una nuova consapevolezza...".
Considerazioni che "come è evidente - dice ancora la Cassazione - hanno ben poco di rilevante, dal punto di vista decisionale rispetto all'esigenze, indicata dalla Consulta e da questa Corte di legittimità, di acquisire tutti gli elementi, congrui e specifici, concreti, indicativi della mancanza di attualità di collegamente con la criminalità organizzata e del pericolo di un loro ripristino nel futuro". Da qui (per la seconda volta) l'annullamento con rinvio della decisione per vizio di motivazione: il tribunale di Sorveglianza di Milano dovrà dunque rivedere la sua posizione alla luce delle indicazioni della Cassazione.