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Il nipote scrive al boss di "cose da pagare", i giudici bloccano la lettera: "Messaggio criptico"

La missiva era stata mandata al killer ergastolano di Porta Nuova, Giovanni Di Giacomo, recluso al 41 bis a Viterbo. Lui si è difeso sostenendo che il riferimento fosse a una cartella esattoriale, ma per la Cassazione "il contenuto è ambiguo e potrebbe riferirsi a somme da riscuotere da terzi"

"Cose da pagare", questo c'è scritto tra l'altro in una lettera recapitata al boss e killer ergastolano di Porta Nuova Giovanni Di Giacomo, 66 anni, recluso al 41 bis nel carcere di Viterbo. Mittente è un suo nipote, incensurato ed estraneo a Cosa nostra, ma per i giudici che hanno vagliato il documento il contenuto sarebbe "ambiguo" e "equivoco" e "potrebbe essere legato a debiti/crediti legati all'attività criminosa dell'organizzazione criminale di apprtenenza" del detenuto. La lettera era stata bloccata dal penitenziario e Di Giacomo è arrivato sino in Cassazione per contestare questa decisione. I giudici della prima sezione, però, gli hanno dato torto e lo hanno pure condannato a pagare le spese processuali.

La difesa: "Nulla di criptico, si parla di una cartella esattoriale"

Il boss si è difeso sostenendo che in quella lettera si sarebbe parlato della rottamazione di una cartella esattoriale recapitata alla sorella e si sarebbe fatto riferimento a dei lavori di ristrutturazione, ad un condono e, appunto, a "cose da pagare". Nulla di criptico e misterioso, quindi, ma una questione legata al fisco. Una versione che non ha convinto però nessuno dei giudici che si sono pronunciati sulla vicenda.

Il tribunale: "C'è un riferimento poco chiaro a somme da riscuotere"

Come si legge nella sentenza della Cassazione (collegio presieduto da Angela Tardio), il tribunale di sorveglianza di Roma, il 18 giugno dell'anno scorso, aveva già rigettato il reclamo con il quale Di Giacomo contestava la precedente decisione del Magistrato di sorveglianza di Viterbo che, il 14 novembre 2019, aveva ritenuto giusto bloccare quella lettera in quanto contenente "il riferimento a somme di denaro da riscuotere non meglio individuate, il cui motivo potrebbe essere legato a debiti/crediti legati all'attività criminosa" di Cosa nostra.

"Potrebbero esserci messaggi indiretti e segnali criptati"

Il tribunale aveva condiviso la scelta, sottolineando come il contenuto della missiva si prestasse "comunque ad un'equivoca interpretazione perché le argomentazioni adoperate dal mittente appaiono confuse nella esposizione e non coerenti complessivamente dal punto di vista logico concettuale del discorso articolato e possono prestarsi a dubbi di poter contenere propalazione di messaggi indiretti o segnali criptati, tenuto conto della posizione di vertice del detenuto nell'ambito dell'organizzazione di stampo mafioso di appartenenza".

"Una comunicazione ambigua"

La Suprema Corte ha a sua volta ritenuto corretta la decisione e rimarca come il controllo sulle missive "deve riguardare esclusivamente la presenza o meno nel testo della corrispondenza di elementi grafici che ne alterino l'apparente significato al fine di veicolare messaggi in violazione delle specifiche previsioni legislative relative al 41 bis". Cosa su cui sia il Magistrato che il tribunale di sorveglianza "hanno concentrato la loro attenzione", spiegando come "la comunicazione veicolata fosse ambigua, facendo ragionevolmente dubitare che il reale messaggio fosse diverso da quello che appariva dalla semplice lettura, senza che tale equivocità fosse chiarita dalla difesa".

La Cassazione: "Giusto bloccare quella missiva"

La Cassazione richiama anche la nota del carcere di Viterbo, che per primo aveva bloccato la lettera: "Il mittente, nipote del detenuto, fa riferimento a dei debiti 'le cose da pagare' (argomento accennato ma non approfondito dagli interlocutori anche nel colloquio del mese di settembre), delineando una situazione poco chiara, che si presta ad una doppia valenza interpretativa, come se in realtà si tratti di soldi da riscuotere da terza persona e non debiti di famiglia, visto che poi nella prima parte della missiva si parla di lavori da fare a casa della zia. Tale situazione potrebbe rivestire interesse di carattere investigativo". Per questo il ricorso è stato rigettato e il boss dovrà anche versare tremila euro alla Cassa delle ammende.
 

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