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Sabato, 20 Aprile 2024
Mafia

Una vita a lottare per la verità, Giuseppe Francese diede giustizia a suo padre e 20 anni fa si uccise

Aveva 12 anni quando nel 1979 sentì i colpi che freddarono il genitore, Mario Francese, cronista che per primo intuì la svolta dei corleonesi dentro Cosa nostra. Era l'ultimo dei suoi figli e fu grazie alla sua determinazione se si arrivò dopo anni alle condanne per l'omicidio. Il fratello Giulio: "Ci ha insegnato a non rassegnarci, ma è stato corroso dal dolore"

Sei colpi. Li sentì nitidamente la sera del 26 gennaio 1979, quando aveva solo 12 anni e scoprì poi che il bersaglio di quegli spari era suo padre, il giornalista Mario Francese. Sei colpi di pistola che sono rimbombati per tutta la breve vita di Giuseppe Francese, il figlio più piccolo del cronista giudiziario ucciso dalla mafia, spingendolo da una parte a cercare con determinazione e coraggio la verità sull'omicidio, ma dall'altra perseguitandolo, scavando dentro di lui "un immenso vuoto", un dolore per una perdita incolmabile e rimasta per troppo tempo senza giustizia. Quando dopo anni erano arrivate finalmente le condanne di primo grado per tutta la Cupola di Cosa nostra, il 3 settembre del 2002 - esattamente 20 anni fa - Giuseppe decise però di togliersi la vita. Vittima di mafia anche lui, ucciso indirettamente da quegli stessi 6 colpi con cui fu ammazzato suo padre.

Avrebbe compiuto 36 anni il 9 settembre ed è proprio questa data, quella del suo compleanno e non quella della sua morte, che la famiglia Francese, in particolare il fratello Giulio, giornalista anche lui e già presidente dell'Ordine, ha scelto per ricordarlo con un incontro che si terrà alle 17 a Palazzo Montalbo, in via dell'Arsenale 52, nel Centro regionale per la progettazione e il restauro.

Il fratello Giulio: "Il dolore lo ha corroso, ma ha reso giustizia a nostro padre"

"Giuseppe era l'allegria, la spensieratezza, ma anche il dolore soffocato dentro per molto tempo, un dolore che l'ha corroso - ha scritto in questi giorni proprio Giulio Francese - ma che non gli ha impedito fino all'ultimo di portare a termine la sua missione di rendere verità e giustizia a nostro padre". E che battaglia, quella per arrivare a rendere giustizia a Mario Francese, se si pensa che qualcuno all'inizio tendeva persino a scartare la pista mafiosa. Anche se sull'asfalto di viale Campania, sotto casa, quella sera di gennaio, era rimasto il cadavere di uno dei cronisti più lungimiranti della storia (non solo) siciliana, che comprese - quando ancora il Maxiprocesso non era neanche immaginabile - le terribili evoluzioni di Cosa nostra. E le raccontò, le scrisse senza timori sul Giornale di Sicilia.

Giuseppe e la "fortuna" di lavorare alla Regione

Una figura non conosciuta da tutti, quella di Giuseppe Francese, per questo si rivela utilissima la decisione del fratello Giulio di pubblicare sul suo profilo Facebook le testimonianze di chi lo ha incontrato, per cercare di rappresentarlo in tante sfaccettature e di trasmetterne quindi la memoria. Giuseppe Francese, al quale il titolo di giornalista professionista fu riconosciuto dall'Ordine dopo la morte, ebbe la "fortuna" di essere assunto alla Regione in seguito all'uccisione del padre. Una "fortuna" su cui lui stesso faceva un'ironia rabbiosa di fronte ad invidie e dicerie, visto che certo non aveva dovuto superare un concorso, ma in compenso si era visto assassinare un genitore. La passione per la scrittura e il desiderio di scavare a fondo nelle vicende di mafia venne dopo.

Il giornalismo e la lotta per la verità

Giuseppe Francese, con varie collaborazioni, si occupò proprio di vittime di Cosa nostra dimenticate e rimaste senza giustizia. La lotta che faceva per se stesso e la sua famiglia, non esitò quindi ad intraprenderla anche per altri (come il giornalista Cosimo Cristina, eliminato a Termini Imerese, la cui morte fu inizialmente liquidata come un suicidio, o il vicepretore onorario di Prizzi, Ugo Triolo, eliminato il 26 gennaio 1978, esattamente un anno prima di Mario Francese). 

Il silenzio di "amici" e "colleghi" e quei "castelli di rabbia"

In un articolo del 1998 (per consultarli tutti è possibile visitare il sito www.marioegiuseppefrancese.it), "Castelli di rabbia", era lui stesso a descrivere quanto gli era costata quella lotta per dare giustizia a suo padre, durante la quale - cosa che non riusciva a spiegarsi - aveva dovuto fare i conti persino con il silenzio e l'oblio "da parte di 'amici' e 'colleghi' di mio padre". Un pezzo in cui emerge con chiarezza cosa voglia dire il coraggio di scrivere la verità e che dovrebbe essere letto e tenuto bene a mente da chi esercita la professione di giornalista.

"L'attacco allo Stato dei corleonesi iniziò con l'uccisione di mio padre"

In "Castelli di rabbia", Giuseppe Francese non esitava a fare nomi e cognomi, a puntare il dito contro chi - anche "colleghi di mio padre" - aveva in qualche modo contribuito a fare calare subito il silenzio e "il sipario" sull'omicidio di Mario Francese. Metteva in evidenza - acutamente - come in "quei libri scritti da 'profondi conoscitori' del fenomeno mafioso", il primo delitto eccellente, l'inizio della seconda guerra di mafia, veniva considerato quello del vicequestore Boris Giuliano, avvenuto il 21 luglio del 1979, "trascurando - scriveva Giuseppe Francese - quel 26 gennaio 1979, data in cui cominciava realmente il violento attacco alle istituzioni da parte del feroce clan dei corleonesi. Quel 1979 terribile dove, in un crescendo impressionante di vittime eccellenti, non a caso si inizia con un giornalista come Mario Francese. Con lui i corleonesi hanno voluto colpire non soltanto l'uomo, ma anche minacciare e cercare di assoggettare l'istituzione (cioè il giornale) per cui lavorava". Ed è esattamente questa la conclusione a cui arrivò poi finalmente il processo per l'omicidio del cronista giudiziario.

"Ci ha insegnato a non rassegnarci, è stato un gigante"

L'articolo si concludeva con la speranza che "i miei 'Castelli di rabbia' si trasformino presto in semplici castelli di sabbia costruiti in una quieta spiaggia, spianata dalla verità e dalla giustizia". Giuseppe Francese si tolse la vita dopo le condanne di primo grado, senza attendere l'esito dell'appello di quel processo che aveva contribuito, anche con grande dolore di fronte a troppe porte chiuse in faccia, a far partire. "Ci ha insegnato a non rassegnarci - afferma Giulio Francese - ci ha spinti a lottare per abbattere il muro di silenzio, ha cominciato a leggere tutto sulla mafia, a scrivere. È stato un gigante che ha sfidato le sue fragilità ed ha pagato un prezzo altissimo". 

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