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Cronaca Libertà / Via Giuseppe Pipitone Federico

"Quella bomba che squarciò il mio palazzo: ero in via Pipitone Federico, vivo per miracolo"

A 36 anni dall'agguato costato la vita a Rocco Chinnici e ad altre tre persone, ecco la testimonianza di Giorgio Trizzino, attuale deputato nazionale del M5S e direttore sanitario del Civico in aspettativa: "Non sentivamo le nostra urla di terrore"

Ieri sono passati 36 anni esatti dalla strage di via Pipitone Federico in cui hanno perso la vita Rocco Chinnici e altre tre persone. Pubblichiamo un ricordo di quel 29 luglio, scritto da Giorgio Trizzino, l’attuale deputato nazionale del M5S, direttore sanitario del Civico in aspettativa.

Ciascuno di noi conserva una data scolpita nella memoria, una data che si ripresenta ogni anno puntuale, come il tempo che passa. Per me il 29 luglio del 1983 è una data che rimane inchiodata nella mente per quell’improvviso ed immenso boato, per quella esplosione che uccideva Rocco Chinnici, due uomini della scorta ed il nostro portiere Stefano. Come se una bomba, caduta da un cacciabombardiere, avesse squarciato il palazzo. Ricordo con precisione quegli istanti, il prima ed il dopo. Erano da poco passate le 8 e mi accingevo a caricare le valige sulla mia nuova Fiat 127 blu (era stato il regalo di nozze di mio padre) che la sera prima, rientrando tardi dall’ospedale, avevo avuto l’accortezza di posteggiare davanti al portone. Avevo fatto una manovra difficile per fare entrare l’auto in un piccolo spazio davanti ad una Fiat 126. Quella 126 che poche ore dopo esplodendo, avrebbe causato la strage di via Pipitone Federico. Stavo finalmente andando in vacanza e quei pochi secondi utilizzati per ringraziare mio padre, venuto a salutarmi e a portarmi della frutta (lo ricordo ancora oggi con un nodo in gola), salvarono la vita mia e quella della mia famiglia. Ed improvvisamente l’esplosione!

giorgiotrizzino (m5s): dati allarmanti sulla spesa sanitaria in italiaLa porta blindata di casa venne divelta dallo spostamento d’aria, non rimase integro un solo mobile, tutti i vetri in frantumi come ogni suppellettile. Ricordo ancora gli occhi carichi di terrore di mia moglie, che si incrociavano con i miei e si chiedevano cosa fosse accaduto. Non riuscivamo a darci una risposta. E subito ci rendemmo conto che non riuscivamo a sentire più le nostre voci, le nostre urla di terrore. Eravamo diventati sordi per l’esplosione e lo rimanemmo per molti giorni ancora. Un silenzio assoluto che si miscelava ad uno strano odore acre, mai sentito prima, e che si diffondeva prepotentemente, insieme ad una polvere grigia che ricopriva tutto. Era l’odore del tritolo che avvolgeva quelle poche cose rimaste integre intorno a noi. Il primo pensiero si diresse subito a mio figlio Manfredi che aveva pochi mesi e che papà era riuscito a trattenere prima che venisse sbalzato fuori dal balcone a causa dello spostamento d’aria. Un grosso frammento di vetro gli aveva ferito il capo e il piccolo terrorizzato cercava di liberarsi dai vetri che lo ricoprivano. 

Lo presi tra le braccia e cercando di tamponare come potevo il sangue scesi da casa per cercare aiuto. Non potevo lontanamente immaginare lo spettacolo che si sarebbe presentato ai miei occhi. Quegli spazi che stavo attraversando non avevano più nulla dei ricordi della sera prima. Sembrava di attraversare un tunnel fumante dove corpi straziati o parti di essi, tubature di divelte che miscelavano acqua a sangue, frammenti non più riconoscibili di quella che era stata una portineria, si erano sostituiti al mio ricordo di un luogo di normale vita quotidiana. Fui il primo ad uscire dal palazzo devastato, trovando davanti a me persone attonite che mi venivano incontro. In quell’istante compresi quanto era accaduto... era stato ucciso Rocco Chinnici. Avevano fatto tutto questo per ucciderlo! Lo riconobbi uscendo dal portone e mi fermai per osservare quei poveri resti che qualche giorno prima mi avevano abbracciato. Avevamo scherzato e parlato del mio lavoro e mi aveva stretto prendendomi sotto braccio. E vidi i resti del corpo di Stefano e degli altri.

Mi dissi: devo andare per salvare mio figlio! Ma sarei voluto rimanere lì con loro. Mentre salivo sull’autoambulanza che ci portava all’Ospedale dei Bambini osservai quello che rimaneva della mia 127 blu che era esplosa insieme alla 126 carica di tritolo. Perché tutto questo? Me lo chiesi lungo tutto il tragitto. Perché avevano ucciso un uomo come Chinnici? Gli anni successivi mi avrebbero fornito la risposta ed avrei compreso di quali atrocità la mafia si sarebbe servita per combattere contro lo Stato. È vero che la mafia ha ucciso solo d’estate, ma è grazie a uomini come Chinnici, Falcone e Borsellino che siamo riusciti, in tutte le stagioni, ad infliggerle colpi letali che prima o poi la sconfiggeranno definitivamente. Conto i giorni che ci separano da questo momento, perché solo allora avremo liberato la nostra società da questa infamia.

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Il giorno dopo fu ancora più triste perché tutti coloro che abitavamo in quello scheletro che era diventato il palazzo di via Pipitone Federico, ci rendemmo conto di non avere più una casa e che quel luogo di disperazione era diventata una meta turistica dove le persone venivano a curiosare e commentare. Ricordo che il luogo fu presidiato dalle forze dell’ordine per tanti giorni poiché i curiosi salivano per le scale ed entravano dentro la ‘caverna’ che era diventata la portineria, per constatare fino a quanto la distruzione avesse cancellato le nostre abitazioni. Il palermitano è fatto così, non riesce a resistere e vuole toccare con mano. Furono giorni difficili quelli successivi alla strage perché tutti coloro che abitavamo in quel palazzo ci guardavamo sgomenti senza capire come reagire a quella devastazione.

Lo scheletro della mia 127 blu fu prelevato da una autogrù poche ore dopo l’esplosione ed io mi resi conto in quel momento di avere perduto anche l’unico mezzo che possedevo per raggiungere il lavoro in ospedale. Ci dissero che la potenza della bomba era stata calcolata in modo tale da non lasciare scampo. È fu così! Il destino volle ancor più scherzare con noi perché l’allora sindaco Elda Pucci decise che il comune di Palermo avrebbe provveduto a risarcire i proprietari delle auto distrutte. Bisognava tuttavia presentare a proprie spese la perizia dell’autovettura e quindi chiedere il rimborso. Mi recai con il perito alla caserma di corso Tukory dove era stata portata la mia auto e la trovai posteggiata accanto all’Alfetta blindata del giudice Chinnici. Guardando la deformazione della sagoma di quell’auto compresi come fosse riuscito a salvarsi l’agente Paparcuri che era l’unico della scorta ad essere rimasto vivo.

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Pagai il perito con una certa difficoltà (in quel periodo non navigavo nell’oro in quanto avevo iniziato da poco a lavorare) e rimasi pazientemente in attesa del contributo del Comune. Non giunse mai il contributo ed io gettai via anche i soldi di una perizia inutile. Scherzi del destino! La signora Agata Chinnici volle essere presente alla riunione di condominio in cui decidevamo come ricostruire il palazzo. Fu per tutti noi la più grande testimonianza di forza d’animo e rispetto per quello che aveva rappresentato per lei ed i figli l’uomo eccezionale che aveva perduto. L’ho sempre ammirata per quel gesto e ricordo, come se fosse adesso, quella mitezza d’animo di una donna che aveva tutto il diritto per essere arrabbiata con la vita e che invece voleva essere ‘una di noi’.

Questo il mio ricordo che completa il racconto di quella drammatica storia che vide tanto dolore ma anche tanta solidarietà. E voglio concludere questo racconto con un ultimo ricordo che è quello di un ululato. Un lamento di un pastore tedesco che amava il suo padrone che si chiamava Rocco e che si diffondeva in quell’aria irrespirabile nei momenti successivi allo scoppio. Lo sentii mentre uscivo dal portone con mio figlio stretto a me. Giungeva da casa del suo padrone che non avrebbe più rivisto.

Il ricordo di Rocco Chinnici 36 anni dopo

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