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Cronaca

Il figlio che convince il papà boss a pentirsi: "Stanco della vita che faceva"

La scelta di Emanuele De Castro, palermitano vicino al clan mafioso di Villagrazia, con un ruolo di primo piano nel florido mercato dello spaccio di droga in Lombardia e con collegamenti con la ‘ndrangheta calabrese. Il figlio Salvatore, 29 anni: "Ecco come l'ho indotto a prendere questa decisione"

Un palermitano con il ruolo di “primo piano” nel florido mercato dello spaccio di droga in Lombardia e con collegamenti con la ‘ndrangheta calabrese. Lui è Emanuele De Castro - nato a Palermo 51 anni fa - arrestato un anno fa dai carabinieri di Busto Arsizio nell'ambito di un’operazione, denominata Atlantic, come il nome del bar gestito dal figlio Salvatore (ai tempi dell'indagine). Che ha 29 anni. Papà e figlio - dopo l'ennesimo blitz antimafia che a luglio ha fatto luce sugli interessi dei clan anche per i parcheggi di Malpensa - hanno deciso di collaborare con la giustizia. Un pentimento, quello dei due palermitani, che ha fatto rumore. Perché è il primo nella ‘ndrangheta lombarda, dopo quello storico di Antonino Belnome del 2010. Ma c'è un'altra cosa che rende unica la storia dei De Castro: è stato il figlio a convincere il padre e pentirsi.

"Sono stanco di questo stile di vita, soprattutto di quella di mio padre. Io stesso l’ho indotto a fare questa scelta". Così, racconta il Corriere della Sera, la mattina del 13 settembre, il giovane ha spiegato la sua decisione ai pm di Milano. Il papà, vicino al clan di Villagrazia di Cosa nostra, chiamato semplicemente "il siciliano", è stato "battezzato" a ridosso della Pasqua del ‘97. Nella ‘ndrangheta ha scalato lentamente le gerarchie al fianco del boss di Legnano, Vincenzo Rispoli, e prima del suo nuovo arresto il 4 luglio, De Castro era arrivato al ruolo di "capo società", vice reggente della cellula calabrese di Legnano. Oggi anche lui, come il figlio Salvatore, è un collaboratore di giustizia.

Una decisione indotta proprio dal figlio arrestato nella stessa indagine, stanco di nascondersi, di fuggire, di una vita fatta di arresti e condanne. E dettata dalla consapevolezza che dalla ‘ndrangheta si esce soltanto in due modi: da morti o arrendendosi allo Stato. Una decisione capace di vincere il vincolo più grande che regola i clan calabresi, quel legame familiare che impedisce di testimoniare contro i congiunti, i padri, i propri figli". Una scelta "di famiglia", come la racconta lo stesso Emanuele De Castro al Corsera: "Ho deciso di collaborare perché non voglio che mio figlio faccia ‘sta fine come l’ho fatta io. Perché sono stanco, mi sembra una vita assurda. Non lo so, è venuto il momento di.... vorrei vivere una vita tranquilla con la mia compagna e la mia bambina".

In due mesi, padre e figlio hanno riempito centinaia di pagine di verbali. Hanno raccontato ai pm che per molti anni ha combattuto la ‘ndrangheta in Calabria, gli assetti delle cosche al Nord e parlato delle connessioni con la politica, l’imprenditoria, la pubblica amministrazione. Padre e figlio gestivano un parking vicino a Malpensa sequestrato dagli investigatori. "Io spacciavo droga. Non sono mai stato battezzato, mio padre non voleva che lavorassi per loro - ha raccontato Salvatore De Castro -. Mi diceva di starne fuori". Appena il figlio ha compiuto 18 anni, il padre gli ha confessato di essere un mafioso: "Gli chiedevo dei suoi viaggi in Calabria, del motivo per cui frequentasse Rispoli: tutti sapevano che senza il suo assenso qui non poteva muoversi foglia. E mi disse che apparteneva alla ‘ndrangheta".
 

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