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Cronaca

Epidemia e povertà, il sociologo: "A Palermo potrebbe esplodere una bomba sociale"

Il docente di Politiche sociali dell'università, Giulio Gerbino, analizza le proteste degli ultimi giorni e avverte: "Con la sola violenza non si ottengono cambiamenti, serve dialogo con le istituzioni". Ma punta anche il dito contro "anni di tagli che hanno ridotto i servizi per i più deboli"

Il rischio che in città esploda una “bomba sociale” in mezzo all’emergenza legata all’epidemia di Covid-19 c’è e, secondo Giulio Gerbino, docente di Politiche sociali all’università di Palermo, “come nella sanità, si stanno vedendo gli effetti di anni di tagli” proprio alle politiche sociali, con “servizi sottodimensionati e incapaci di far fronte alle esigenze dei più deboli”. Un altro segnale che il modello neoliberista, passata la tempesta, dovrebbe essere rivisto e forse superato. Per quanto riguarda le proteste, però, la violenza fine a se stessa, come spiega il professore, in genere non determina cambiamenti sociali: “Per ottenere delle riforme occorre da un lato che vengano formulate istanze precise e che, dall’altro, le istituzioni siano disponibili ad ascoltare e a creare percorsi di dialogo”.

Gerbino2-2Esiste il rischio che a Palermo esploda una “bomba sociale”?
“Non è semplice dirlo, ma i segnali di allarme ci sono perché Palermo non è una città ricca e i due terzi della popolazione si arrabatta e cerca di sbarcare il lunario”.

Quale può essere la fascia più a rischio della popolazione in questo momento?
“Non tanto chi era già povero prima di questa emergenza sanitaria, in quanto già preso in carico dalle forme di assistenza pubblica e da associazioni del terzo settore. Coloro che oggi risentono particolarmente di questa crisi sono invece i lavoratori poveri, soprattutto quelli che finora hanno svolto le loro attività in nero e che sono diverse migliaia in città. Si pensi a chi vendeva il pane  abusivamente per strada, agli ambulanti di frutta e verdura senza partita Iva che adesso non possono accedere al mercato ortofrutticolo per rifornirsi. Sono tutte persone che si ritrovano senza alcuna entrata”.

Ci sono anche tanti lavoratori regolari che hanno dovuto chiudere le loro attività, ma forse questi sono meno propensi per esempio ad assaltare un supermercato?
“Certamente, ci sono anche questi lavoratori per i quali lo Stato si sta attivando per fornire dei sussidi, ai quali chi è impiegato in nero non può però accedere”.

In merito alle proteste degli ultimi giorni la Procura sta indagando anche in ambienti mafiosi. Dal suo punto di vista e con gli elementi che ha a disposizione ritiene possibile che a manovrare gruppi di persone in difficoltà possa essere la criminalità organizzata?
“Non ho elementi per dirlo, ma è un’ipotesi che non si può escludere e che appunto sarà vagliata dagli investigatori. Penso però che la grande criminalità, quella che gestisce traffici importanti, in genere non ha interesse a creare sommosse e ad attirare l’attenzione delle forze dell’ordine. Bisogna capire quale aria tira in certi quartieri che sono zone grigie della città, dove la piccola e la grande criminalità convivono. In ogni caso una rivolta, nel senso stretto del termine, implica comunque un’organizzazione”.

Assalti ai supermercati e minacce sui social: si indaga su ambienti mafiosi

Questa emergenza sta facendo emergere molte storture, può essere un’opportunità di cambiamento anche in ambito sociale?
“Certo, ma per arrivare a un cambiamento bisogna che ci siano delle istanze ben definite da parte di un gruppo, un dialogo e un percorso con le istituzioni e le organizzazioni sociali. Solo così si può ottenere un miglioramento. E’ una formula che in città ha già dato dei risultati e che andrebbe rafforzata, ascoltando soprattutto tutti quegli enti che hanno direttamente a che fare con le persone che sono in difficoltà, che sanno quali possano essere le loro esigenze. Un singolo o un piccolo gruppo, senza progettualità, non può determinare una riforma sociale. Il linguaggio che emerge per esempio dai messaggi circolati sui media in relazione alla vicenda del Lidl non sembra andare in questa direzione purtroppo”.

Qualcuno ha interpretato la protesta inscenata al supermercato come il primo segno di una specie di rivolta del proletariato, degli ultimi. Cosa ne pensa?
“Intanto che il concetto di ‘proletariato’ andrebbe aggiornato: cosa significa oggi? Perché in questo momento non abbiamo di fronte operai delle fabbriche e contadini sindacalizzati. Una rivolta sociale richiede altro, come detto. Questa potrebbe essere piuttosto una fiammata, come ce ne sono state altre in città, e in base a chi la organizza c’è anche il rischio di manipolare le persone più umili per altri scopi. La rabbia e il disagio devono portare a un’interlocuzione con le istituzioni, altrimenti si corre il rischio non solo di non ottenere alcun cambiamento, ma di ritrovarsi addirittura in una situazione peggiore di prima”.

Pensa che gli aiuti predisposti dal governo nazionale e dal Comune per fronteggiare l’emergenza sociale derivata dall’epidemia siano adeguati?
“La linea generale è quella giusta, lo Stato demanda ai Comuni che a loro volta si appoggiano al tessuto associativo già esistente sul territorio, che ha il polso della situazione. Occorre però intervenire davvero in tempi brevissimi. Dopo anni di tagli alle politiche sociali, non per colpa dei Comuni che hanno subito scelte statali, esattamente come sta accadendo nella sanità, si vede il risultato: i nostri servizi sono sottodimensionati e non riescono a far fronte alle esigenze di chi è più debole”.

E’ un aspetto che dovremo ricordare e tenere presente quando il peggio sarà passato…
“Sì e dovranno ricordarselo anche i vertici istituzionali. Il modello politico e economico neoliberista andrebbe superato, come sostiene anche Mario Draghi, ritornando a un ruolo centrale dello Stato, pronto a spendere per salvare l’economia e garantire il benessere delle popolazioni”.
 

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