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Cronaca

Il caso Shalabayeva e la condanna di Cortese, i giudici: "Fu rapimento di Stato"

Le motivazioni della sentenza. Tutto iniziò la notte tra il 28 e 29 maggio 2013, quando la moglie del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov e la figlia furono prelevate dalla polizia nella loro abitazione

"L'espulsione e il trattenimento di Alma Shalabayeva rappresentano un unicum nella storia giudiziaria italiana nella quale il collegio non rintraccia né elementi di ordinarietà né di approccio burocratico, ma, al contrario individua chiari segnali di eccezionalità e di straordinario accanimento persecutorio. In definitiva, secondo un'appropriata definizione di commento a questa storia, avvenne un 'rapimento di Stato'". E’ quanto si legge nelle motivazioni della sentenza con cui i giudici di Perugia lo scorso 14 ottobre hanno condannato tutti gli imputati nel processo per la vicenda dell'espulsione di Alma Shalabayeva e di sua figlia avvenuta nel 2013.

Per questa vicenda in particolare l’ex capo della Squadra Mobile di Roma ed ex questore di Palermo Renato Cortese e l’ex capo dell’ufficio immigrazione ed ex capo della Polfer Maurizio Improta sono stati condannati a 5 anni per sequestro di persona.

“Il trattenimento forzoso di Alma Shalabayeva presso il Cie di Ponte Galeria a Roma, dal 29 al 31 maggio 2013, e la successiva espulsione della donna e della figlia Aula verso la Repubblica del Kazakhistan rappresentano, ad avviso del Tribunale di Perugia, un caso eclatante non solo di palese illegalità – arbitrarietà delle procedure seguite dalle istituzioni italiane, ma, soprattutto, una ipotesi di patente violazione dei diritti fondamentali della persona umana” si legge nelle motivazioni della sentenza.

“Gli imputati hanno perpetrato un crimine di eccezionale gravità, lesivo dei valori fondamentali che ispirano la Costituzione repubblicana e lo Stato di diritto e, pur nel rigoroso rispetto del principio di stretta legalità il Tribunale avverte il dovere di manifestare che la norma incriminatrice del delitto di sequestro di persona, cioè il reato più grave contestato nel processo e per il quale il Tribunale ritiene di pervenire ad un addebito di responsabilità in capo agli imputati appare quasi non adeguata a rappresentare, compiutamente, le dimensioni della condotta delittuosa e le devastanti conseguenze che essa ha cagionato” è scritto nelle motivazioni.

“La circostanza che ha sconcertato maggiormente il Collegio - si legge - è che nessun dirigente o funzionario della Polizia di Stato, in nessuna fase di questa vicenda, abbia avvertito la necessità di soffermarsi, e soprattutto di far soffermare l’intera struttura, per ragionare sul fatto che la possibile estradizione di Ablyazov (marito della Shalabayeva, ndr) (se fosse stato catturato a Roma) e, soprattutto, la successiva espulsione della moglie e della figlia sarebbero avvenute in favore di un paese, il Kazakhistan, messo all’indice, nella comunità internazionale, proprio perché nazione che violava i diritti umani, anche praticando la tortura e la eliminazione fisica degli oppositori”.

“Tra il 28 maggio e le prime ore del 29 maggio, si creava una surreale situazione – scrivono i giudici del terzo collegio del tribunale di Perugia presieduto da Giuseppe Narducci - nella quale i più alti livelli della più importante forza di polizia del nostro paese restavano con il ‘fiato sospeso’ in attesa che la Squadra Mobile e la Digos romane realizzassero la cattura di una persona che assumeva le sembianze di un Bin Laden kazako, cioè di un pericoloso terrorista internazionale, quasi certamente armato, che metteva in ‘pericolo la sicurezza del nostro paese’ (furono queste le parole usate dal Ministro dell’Interno nel colloquio con il suo Capo di Gabinetto, sollecitandolo ad incontrare i rappresentanti del Kazakistan)”.

“Tuttavia le autorità kazake mentivano spudoratamente nel tentativo di presentare Ablyazov come soggetto legato ad ambienti terroristici e, soprattutto, come persona pericolosa che avrebbe potuto adoperare le armi in caso di arresto poiché non solo i reati che lo riguardavano in realtà attenevano alla sfera economica (appropriazione di fondi bancari, truffa, ecc.) e non certamente al terrorismo, ma inoltre, nel maggio 2013 gli investigatori privati italiani e israeliani, che lavoravano per conto dei committenti kazaki, non avevano mai avuto occasione di constatare che Ablyazov circolasse armato o disponesse di una scorta armata”.

"Se il Tribunale non è in grado di rispondere a una delle domande chiave che questa storia continua a suscitare (a quale livello politico o istituzionale venne presa la decisione della deportazione?) ritiene tutta via di poter affermare che durante tre interi giorni del maggio 2013 si realizzò, di fatto, una limitazione o compressione della nostra sovranità nazionale” si legge nelle motivazioni.

“Alcuni rappresentanti della Repubblica italiana, imputati nel presente procedimento – scrivono i giudici - accantonarono il giuramento prestato alla Costituzione e di fatto servirono gli interessi di altra nazione, cioè della dittatura kazaka”.

"Riservandoci ulteriori approfondimenti sulle motivazioni della sentenza, fin da ora non possiamo che rimanere sbalorditi dinanzi ad affermazioni che non hanno alcun aggancio con la realtà dei fatti e che configurano una situazione assolutamente lontana dalle stesse risultanze dibattimentali. La signora era una donna clandestina e si trovava in Italia con documenti falsi" dicono all’Adnkronos gli avvocati Franco Coppi ed Ester Molinaro, difensori di Renato Cortese. "Stiamo già lavorando ai motivi di appello", spiegano i difensori di Cortese.

fonte Adnkronos

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