Palermo ricorda il giudice Chinnici, Musumeci: "Vive nelle vittorie dello Stato sulla mafia"
Il 29 luglio del 1983 l'allora capo dell'Ufficio Istruzione del tribunale trovò la morte in via Pipitone Federico, a pochi passi dalla sua casa, dove venne fatta esplodere una Fiat 126 verde imbottita di esplosivo. Il governatore: "Sue intuizioni fondamentali". L'unico sopravvissuto alla strage: "Ero convinto che certe cose non mi potessero accadere..."
Era il 29 luglio del 1983 quando la mafia decise di chiudere i conti con il giudice Rocco Chinnici, il "papà" del pool antimafia. L'allora capo dell'Ufficio Istruzione del tribunale trovò la morte in via Pipitone Federico, a pochi passi dalla sua casa, dove venne fatta esplodere una Fiat 126 verde imbottita con 75 chili di esplosivo. Con lui persero la vita due carabinieri della scorta - il maresciallo Mario Trapassi e l'appuntato Salvatore Bartolotta - e il portiere dello stabile di via Pipitone Federico, Stefano Li Sacchi. Le vittime della strage sono state ricordate stamani alla presenza delle messime autorità locali. Presente anche il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho.
Il ministro Cartabia: "Chinnici ha cambiato il modo di contrastare la mafia"
"A Rocco Chinnici - ricorda il presidente della Regione, Nello Musumeci - si deve una delle più acute intuizioni per il contrasto alla mafia: superare la frammentazione di conoscenze e competenze tra magistrati e investigatori per rendere efficace ed efficiente la lotta a Cosa Nostra. Dal pool antimafia alla Direzione distrettuale antimafia e, oggi, alla Procura europea la sua memoria è viva ogni giorno nei fatti e nelle vittorie riportate dallo Stato sulla criminalità organizzata".
De Raho elogia il "rigore morale" di Chinnici, che è "un riferimento per i magistrati ma anche per gli studenti. E' stato il creatore di un metodo di lavoro, quello della condivisione e del coordinamento del lavoro. Quindi, ha dato origine a un nuovo modo di lavorare. Un modo vincente che ha determinato poi l'istituzione della Procura nazionale e via via la stessa Procura europea".
"La strage di via Pipitone Federico ha contribuito a manifestare la violenza del sistema di potere politico-affaristico-mafioso. Rocco Chinnici resta nella storia della magistratura italiana ma anche della cultura del diritto. La sua intuizione del lavoro in pool dei magistrati antimafia, nonostante i tanti ostacoli, e la sua frequente presenza nelle scuole costituiscono pietre miliari del cammino di resistenza anche culturale e di liberazione del nostro paese nei riguardi della mafia", sottolinea il sindaco, Leoluca Orlando .
E anche Giovanni Paparcuri, sopravvissuto all'attentato in via Pipitone Federico e poi divenuto poi stretto collaboratore di Giovanni Falcone Paolo Borsellino, ricorda quella mattina di 38 anni fa. "Il 29 luglio del 1983 - scrive su Facebook - mi svegliai come al solito verso le 6,30, non c'era nulla che facesse presagire che da lì a poco sarebbe successo l'inferno, a parte la vicenda del libanese che preannunciò la strage, ero sereno, magari ero convinto che certe cose non potevano accadermi, oppure ero tranquillo perché facevo un lavoro che ho voluto e che mi piaceva tantissimo, infatti per tale motivo lasciai le ferrovie. Mio padre non era d'accordo per questa mia decisione, mi ricordo che quando presi possesso mi disse, come un presentimento: 'a tia ti succederà qualcosa', ma me lo disse perché come una calamita attraggo tutte le situazioni pericolose. Comunque, feci colazione, preparata da mia madre, ossia un tazzone di latte come se dovesse essere l’ultima tazza della mia vita. Feci la doccia e mi vestii, e dovevo decidere se mettere la giacca o meno, la decisione dipendeva se portare la pistola o meno, in ogni caso non serve e non sarebbe servita a niente. Per cui verso le 7 mi affacciai al balcone per assaggiare il tempo, il cielo era bello azzurro, e anche se non faceva tanto caldo, decisi che non avrei messo la giacca, poi il caldo l’avrei sentito poche ore dopo. Guardai giù, c’era ancora posteggiata la Lancia Fulvia coupé color oro del dr. Fiore, sì, il marito di Rita Borsellino, che io chiamavo signora Fiore e nemmeno sapevo che era la sorella del dott. Borsellino, abitavano anche loro in via Antonio Ugo, 70, loro al secondo piano e noi al terzo".
E il recconto prosegue: "Presi la mia agendina, le chiavi della mia A112 blu, salutai mia madre che mi rispose stranamente solo con uno sguardo, mio padre era già all'officina. Andai con calma al Palazzo di Giustizia a prelevare l’Alfetta blindata beige, che non era in dotazione al Consigliere Chinnici, per lui c’era una Lancia Beta, l’Alfetta era stata assegnata al giudice Falcone, io però preferivo guidare quest’ultima, perché era molto più maneggevole". E ancora: "Arrivai in via Pipitone verso le 7:50, e posteggiai esattamente dove volevano i cosiddetti uomini d'onore, tra la 126 verde imbottita di tritolo e una 500 color beige, insomma quello spazio fu la trappola. Sul posto già c’erano i ragazzi con l'Alfasud di scorta, Alfonso Amato, Cesare Calvo, Mario Trapassi. La macchina militare con Antonio Lo Nigro e Ignazio Pecoraro. L'appuntato Bartolotta che doveva essere in ferie era sul marciapiede e giustamente incazzato. Il signor Stefano Li Sacchi era già operativo a fare le pulizie e stazionava davanti il portone perché poi il consigliere passando, come ogni mattina, gli avrebbe stretto la mano. Scesi dalla blindata, salutai tutti e stavo per leggere il giornale appoggiandomi sul cofano dell'autobomba, senonché l'appuntato Bartolotta mi pregò di andare a prendere la ricetrasmittente che si trovava nell'auto di scorta per posizionarla nella blindata, così feci e fu la mia salvezza".
"Tralascio - conclude Paparcuri - i ricordi di cosa provai subito dopo l'esplosione, perché li ho già raccontati, tuttavia quando ripresi conoscenza mi vennero in testa le parole di mio padre. Il cielo azzurro che vidi alle 7, alle 8:10 era diventato rosso sangue e faceva tanto caldo".