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Giovedì, 25 Aprile 2024
Cronaca

Va in congedo per assistere la madre malata e al rientro Almaviva lo licenzia: "Illegittimo, va reintegrato"

La decisione della Corte d'Appello ribalta il verdetto di primo grado, secondo cui il lavoratore avrebbe volutamente chiesto un permesso in base alla legge 104 sapendo di non averne diritto. In realtà avrebbe avuto tutti i requisiti, ma l'azienda lo aveva allontanato per motivi disciplinari. Ora dovrà riassumerlo e risarcirlo

Per oltre quattro mesi, in virtù della legge 104, aveva goduto di un congedo straordinario per assistere la madre malata, ma al ritorno al lavoro Almaviva lo aveva improvvisamente licenziato, sostenendo che in realtà (come stabilito erronamente in prima battuta anche dall'Inps) non avesse diritto a quel periodo di assenza. Un licenziamento per motivi disciplinari che il giudice del Lavoro, Dante Martino, aveva ritenuto legittimo in primo grado (sia in sede cautelare che di merito) e che adesso è stato invece ritenuto del tutto ingiusto ed ingiustificato dalla Corte d'Appello, che ha disposto quindi la reintegra del dipendente e ha condannato l'azienda al pagamento dei salari arretrati e delle spese legali.

La decisione è del collegio presieduto da Cinzia Alcamo, che ha accolto il ricorso dell'avvocato Francesco Paolo Rubino, che assiste il dipendente, S. T., in Almaviva dal 2011 e cacciato dal call center a gennaio del 2020. I giudici hanno stabilito che "avendo goduto legittimamente ed in assoluta buona fede del permesso, contestato dalla società a distanza di due anni, il lavoratore, la cui condotta è priva di rilievo disciplinare, ha il diritto ad essere reintegrato nel posto di lavoro, non sussistendo il fatto contestato, in applicazione del regime di tutela previsto dall'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori".

Il punto centrale della vicenda è l'applicazione della legge 104, che prevede che si possa usufruire del congedo per un massimo di due anni "per ciascuna persona portatrice di handicap". Il lavoratore, quando l'8 novembre del 2018 aveva chiesto attraverso un patronato di usufruire del beneficio per assistere la madre immobilizzata al letto dopo una caduta, ne aveva già goduto in precedenza per occuparsi del fratello, anche lui affetto da gravi patologie. L'Inps aveva prima accolto l'istanza il 9 gennaio 2020 - cioè oltre un anno dopo e quando ormai il lavoratore era già tornato in servizio - il 9 gennaio 2020, ma poi, il 14 gennaio successivo, l'aveva rigettata sostenendo che il richiedente aveva "superato il massimo assistibile di 730 giorni". Un'interpretazione della norma alla quale si era adeguata Almaviva che aveva deciso di licenziare il lavoratore.

S. T. aveva quindi fatto ricorso, ma il tribunale del Lavoro aveva giudicato legittimo il licenziamento, ritenendo "poco plausibile che il ricorrente, già costretto per ragioni famigliari a fruire massicciamente dei benefici previsti dalla legge 104 sconoscesse la norma (peraltro di agevole reperimento tramite la consultazione di qualunque sito internet specializzato) che pone il limite di due anni ai giorni di congedo straordinario, fosse pienamente cosciente di aver già superato il limite di legge e di non aver pertanto ragionevolmente diritto alla fruizione di esso". A parere del giudice di primo grado, inoltre, il lavoratore avrebbe quindi procovato "all'azienda un grave nocumento morale o materiale in quanto ha volontariamente presentato una domanda di congedo straordinario, che sapeva inaccoglibile dall'Inps, assentandosi così ingiustificatamente dal lavoro per oltre 4 mesi e cagionando all'azienda convenuta un evidente danno di natura economia e organizzativa".

In appello, la difesa di S. T. ha documentato come la stessa Inps che aveva prima concesso e poi negato il beneficio - come sancito in sede amministrativa - avrebbe sbagliato ad applicare la legge 104, proprio perché il lavoratore aveva goduto del congedo per famigliari diversi e i due periodi non potevano quindi essere sommati. Inoltre, il lavoratore, quando all'improvviso era stato licenziato da Almaviva, aveva scritto una lettera all'azienda sostenendo la sua totale buona fede. Lettera a cui però la società non aveva dato credito, ottenendo poi ragione in tribunale. Adesso però, in appello, la decisione è stata ribaltata e il lavoratore dovrà essere reintegrato.

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