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Giovedì, 28 Marzo 2024

Sandra Figliuolo

Giornalista Palermo

Palermo non è più come Beirut: cosa resta di Cosa nostra?

"Cosa nostra oggi è immondizia organizzata", è questa la definizione piuttosto recente di un "esperto in materia", il boss Giulio Caporrimo, che da anni entra ed esce dal carcere proprio per 416 bis e che - si badi bene - faceva questa considerazione parlando da solo, in una serie di dialoghi immaginari in cui imitava persino la voce dei suoi fantomatici interlocutori. Cosa resta davvero, a trent'anni dalla strage di Capaci, di Cosa nostra? Quanto potere ha realmente e quanto invece gliene viene attribuito simbolicamente da una narrazione (soprattutto giornalistica) completamente sfocata? 

Se Caporrimo non fa fatica ad ammettere che le cose siano cambiate, non sembra altrettanto facile per "mafiologi", giornalisti, a volte magistrati e politici, ma anche per certa (sempre più diffusa) antimafia di facciata. Anche perché certa gente sugli steorotipi e i luoghi comuni, sulle passerelle e le chiacchiere, è riuscita a costruire carriere notevoli. Troppo impegnati a guardarsi l'ombelico e a parlarsi addosso, a sfilare "per la legalità" o a presenziare nei salotti televisivi, in tanti proprio non ci riescono ad accettare una cosa semplice ed evidente: Palermo non è più quella degli anni Ottanta e Novanta, cupa, insanguinata, sventrata, terrificante. Palermo non è più Beirut. Somiglia sempre più a una città del Terzo mondo per la totale assenza di servizi essenziali, ma non è più Beirut.

Oggi qui si muore soprattutto in seguito ad incidenti stradali o sul lavoro. I boss dell'attacco frontale allo Stato, delle stragi, primi tra tutti Totò Riina e Bernardo Provenzano, sono morti in carcere da tempo o sono reclusi senza scampo al 41 bis. Non si fabbrica più l'eroina da esportare in tutto il mondo nelle raffinerie palermitane, ma per comprare una partita di "fumo" o di cocaina occorre piegarsi e rivolgersi ad organizzazioni criminali ben più forti, Camorra e soprattutto 'Ndrangheta.

Si può definire "capomafia", con tutto l'alone di potere che questo comporta, un uomo che parla da solo e che ritiene lui stesso che l'organizzazione di cui fa parte sia ormai "finita" e composta solo da "miserabili" e "fanghi"? Si può seriamente definire "capomafia" un soggetto che, seppure con metodi discutibili, basa la sua forza anche sulla restituzione a un ambulante delle trecce d'aglio di cui è stato derubato? Si può realmente credere che personaggi dai soprannomi improbabili (e l'inciuria non mente), come "ciolla", "puzza di bocca" o "Pikatchu", riescano a fare paura a qualcuno? E che dire di quegli esattori del pizzo che si impongono anche chiedendo allo sfincionaro di mettere più condimento, che si lamentano perché fanno i loro giri ma poi non riescono neppure a pagarsi la benzina, che - per fortuna - si spaventano perché sulla vetrina del negozio da taglieggiare c'è l'adesivo di Addiopizzo?

Dobbiamo davvero pensare che quei personaggi sdentati, talvolta col reddito di cittadinanza, che si ritrovano davanti ai giudici per la convalida degli arresti siano un esercito temibile? Le intercettazioni e le indagini ci rivelano anche questo e bisogna tenerne conto.

Si fatica molto a dire - anche perché verrebbe meno un comodo alibi che giustifica ogni problema e ogni forma di arretratezza - che in questa città "la mafia non ha vinto", come sostenevano già in maniera convincente nel 2014 i professori Giovanni Fiandaca e Salvatore Lupo in un libro illuminante. Il tentativo di ricostituire la Cupola sventato addirittura in diretta dai carabinieri nel 2018 non è forse la prova più lampante che lo Stato ha prevalso su Cosa nostra?

Sia chiaro, qui non s'intende sostenere stoltamente che la mafia non esiste, ma soltanto che ha un'altra faccia rispetto a quella che viene raccontata applicando ormai da decenni sempre gli stessi schemi e usando sempre le stesse lenti, preferendo distorcere la realtà piuttosto che fare lo sforzo di decifrarla. "Roma come Corleone" titolarono diverse testate nazionali ad agosto del 2015 in relazione ai funerali show di Vittorio Casamonica. Ma quale Corleone? Non certo quella reale, dove mai - e men che meno ora - nessuna cerimonia funebre di nessun boss è stata celebrata in maniera tanto pacchiana. Ma meglio lo stereotipo che l'analisi: è più facile. E poi c'è lo spettro che si aggira per l'Europa, l'imprendibile Matteo Messina Denaro, che consente di riempire pagine e pagine di libri e giornali e attorno al quale "il cerchio si stringe" ormai da anni ma senza acchiappare nulla. Il fantasma a capo della Cupola. Ma di quale Cupola? I palermitani non accennavano mai alla primula rossa trapanese quando tentarono qualche anno fa di ricostituire la Commissione provinciale di Cosa nostra...

Cosa sia oggi Cosa nostra, se parli ancora palermitano, se indossi una tuta dal marchio contraffatto o giacca e cravatta, se ascolti musica classica o neomelodica, è difficile da dire. Certo è che non è più quella che imbottiva di tritolo le strade e faceva saltare per aria uomini dello Stato e cittadini innocenti. E anche la città è cambiata. Ciò che invece è certamente rimasto immutato è piuttosto la subcultura mafiosa, quella che fa concludere a colpi di pistola e con un omicidio banalissime liti, quella che fa alzare il volume della musica per prevaricare sui vicini, quella dei fuochi d'artificio dai balconi ad ogni ora, della tripla fila, quella che fa acclamare un politico condannato per aver favorito Cosa nostra proprio mentre ricopriva la massima carica in quest'Isola. Politico che ha scontato la sua pena, che è libero di manifestare il suo pensiero (ci mancherebbe altro), ma che ad altre latitudini forse non sarebbe tornato ad occuparsi proprio di politica perché non avrebbe trovato alcun riscontro nella società civile. Qui invece sì. Quella subcultura che si esprime anche nel "caffè" al posteggiatore (per timore di ritrovarsi l'auto rigata o con le gomme a terra), quella che fa preferibilmente girare la faccia dall'altra parte tutte le volte che ci sarebbe invece da intervenire, quella che fa chiedere raccomandazioni, quella che bada ai cognomi e non ai meriti, che regala un voto in cambio di un pacco di pasta, quella per cui bisogna pagare anche il turno per entrare alle poste.

E c'è qualcosa che questa subcultura la alimenta e la fa proliferare da sempre: la pessima amministrazione che produce pessimi cittadini. Qui ci vogliono mesi per rinnovare una carta d'identità e ottenere l'esenzione dal ticket (inutile chiamare e scrivere agli uffici: non risponderà nessuno), c'è munnizza ovunque, i mezzi pubblici sono in ritardo e stracolmi, i marciapiedi e le strade pieni di buche. Non si può neanche morire in questa città e solo se si ha la fortuna di avere qualche "amico" i diritti negati diventano subito favori concessi.

Magistrati e forze dell'ordine la loro parte l'hanno fatta abbondantemente in questi anni, ma dopo ogni retata non è arrivato alcun "esercito di maestre elementari" e lo Stato ha lasciato il degrado di sempre, la disoccupazione, la rassegnazione, la povertà e la miseria culturale. Cioè lo schifo che consente all'erbaccia di rinascere vigorosa. Fino alla prossima retata di sdentati. Ma sono davvero loro il problema, gli sdentati? Sono davvero loro Cosa nostra? 

Intanto - come è emerso da altre indagini, molto più complesse - ci sono imprenditori che dialogano con strani personaggi dal passato mafioso e che, grazie a business apparentemente leciti (l'eolico, per citarne uno) arrivano sino in Parlamento. Ci sono funzionari pubblici che per due soldi tradiscono lo Stato e i cittadini, che non fanno il loro dovere. E se per avere una stupida autorizzazione bisogna supplicare e attendere mesi, nulla di strano che chi la rilascia diventi una sorta di Dio in terra, che servano mazzette per far funzionare il sistema. E' questo malaffare disgustoso, che pervade tutta l'Italia e non solo Palermo, la Cosa nostra di oggi? E lo Stato è eventualmente attrezzato per liberarsi dei suoi stessi parassiti? Ne ha realmente voglia? Parafrasando Pavese si potrebbe dire "verrà la mafia e avrà i tuoi occhi": ciascuno di noi è in grado e ha il coraggio di respingere (anche denunciando) lo schifo e le sirene del potere, di rinunciare a miserabili interessi personali e a breve termine? O vuole continuare a blaterare di legalità solo finché riguarda gli altri o durante le commemorazioni di stragi e omicidi? 

Trent'anni fa c'è chi ha dato la vita per tentare di liberare questa terra semplicemente facendo il proprio dovere. Non senza timori, ma certamente senza esitazioni. Un sacrificio che non è stato affatto vano perché Palermo non è più Beirut, appunto. Oggi quell'eccidio sarà commemorato e ricordato in diretta nazionale ancora una volta. Che sia quella buona non per sfilare e fare retorica ma per onorarlo davvero e trasformare finalmente l'esempio in pratica. 
 

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