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Sandra Figliuolo

Giornalista Palermo

"Lo sputo" del pm Marzia Sabella sull'ipocrisia e le semplificazioni

Il libro del procuratore reggente di Palermo ispirato alla storia di Serafina Battaglia, tra le prime a schierarsi contro i boss negli anni '60, presentato alla "Marina di libri". Non un saggio su Cosa nostra, ma un viaggio nelle viscere della Sicilia per arrivare alle origini culturali della mafia, lì dove prima di essere un articolo del codice è un modo di essere

Si staglia vestita di nero e con gli occhi di fuoco, Serafina Battaglia, si stacca dalle pagine e sembra di sentire la sua voce, rabbiosa e fiera, le sue parole crude, nette, sfacciate, intense e ironiche come sanno essere solo quelle dialettali, quelle di una donna che non ha studiato ma ha imparato dalle dure lezioni che la vita le ha messo davanti. Una bestia indomabile, una femmina che sputa senza vergogna e senza freni la sua saliva e la sua verità sui pregiudizi, sulle regole imposte, sull'ipocrisia, ma anche sui facili schemi in cui la storia ha cercato di incasellarla per contenerla. A liberarla - in un libro che sfugge allo stesso modo alle semplificazioni - è Marzia Sabella, magistrato di lungo corso e attualmente procuratore reggente di Palermo, prima donna a ricoprire questo incarico al vertice di uno degli uffici giudiziari più importanti del Paese. E probabilmente nella "Fina" descritta nel suo "Lo sputo" (Sellerio Editore) c'è molto anche di lei.

"La donna che ebbe il coraggio di denunciare la mafia negli anni Sessanta", questa è l'etichetta appiccicata più spesso addosso a Serafina Battaglia, che effettivamente dopo l'omicidio del compagno (spregiudicata anche in questo, aveva infatti lasciato il marito "vero" e imposto per lui) e soprattutto del figlio (il "picciliddu", come lo chiamava nonostante i suoi "21 anni, 5 mesi meno 3 giorni") decise di parlare con il giudice Cesare Terranova, diventando una testimone dai modi teatrali e inopportuni, che tirava fuori dal reggipetto il fazzoletto impregnato del sangue del suo sangue per mostrarlo ai giudici come prova inconfutabile, in diversi processi a una Cosa nostra che - da un punto di vista giudiziario - allora neppure esisteva. Ma era prima di tutto una donna di mafia, Serafina Battaglia, che sapeva, sentiva, conosceva - come ha spiegato Sabella durante la presentazione del volume alla "Marina di libri" - come hanno sempre saputo, sentito e conosciuto le compagne dei boss, apparentemente silenziose, ombre del focolare, ma in realtà forse più potenti di loro. 

Un testo scritto "ad alta quota", ha detto l'autrice - che ha dialogato con i giornalisti Elvira Terranova e Gaetano Savatteri, direttore artistico della manifestazione - cioè durante i voli da una città all'altra. Ovvero da fuori, prendendo le distanze da tutto ciò che ammorba e vanifica il dibattito su mafia e antimafia. E inserire questo volume tra quelli "mafiologici" è davvero un'operazione riduttiva, se non offensiva: si tratta piuttosto di un viaggio nelle viscere di questa terra, nel suo sterco e nel suo orgoglio, nelle sue contraddizioni profonde, arrivando alle origini culturali di Cosa nostra, a quei "valori" che prima di essere raggrumati in un articolo del codice penale sono un modo di essere. Un libro in cui le parole sono scelte con una cura straordinaria, senza alcun tipo di censura o inibizione, come ormai accade troppo raramente, e che rende la lettura un piacere meraviglioso. 

Lo spunto è una delle rare interviste televisive a Battaglia, un filmato in bianco e nero girato dalla Rai nel 1967, in cui la donna spiega la sua filosofia rudimentale, la sua scelta e la sua solitudine. La sua totale assenza di "terrore" di fronte ai mafiosi che sbeffeggia e ridicolizza chiamandoli schiettamente "pezza da piedi" e "cornuti" (non per le donne che frequentano - lo precisa da protofemminista - ma perché non mantengono i patti, non hanno rispettato il "codice" di Cosa nostra, secondo cui i bambini non si toccano), il suo credere "relativamente" nella giustizia, a cui non bastano le parole di una madre ma "ha di bisogno la fotografia mentre chiddu ci spara". Sabella riempie con la sua immaginazione e la sua sensibilità i vuoti lasciati dalla storia sulla vita anche privata di "Fina", la "vedova con la P38" (perché girava sempre con l'arma che sapeva usare anche meglio dei maschi). E lo fa in modo magistrale perché non le interessa arrivare a un giudizio definitivo e manicheo sulla figura che racconta, schierandola con i buoni o con i cattivi, ma la lascia semplicemente vivere e fluire come "un torrente", fatto di acqua, ma anche di detriti, per citare una metafora del libro.

Non è un caso se il testo - ieri l'attrice Stefania Blandeburgo ne ha interpretato magnificamente alcuni passaggi - si apre proprio con la protagonista sola e malmessa davanti alla televisione che trasmette uno di quei ridicoli programmi di intrattenimento spacciati per informazione, in cui un collaboratore di giustizia, assistito da una serie di "esperti" (compreso lo psicologo che ormai non può mai mancare), prova a raccontare di aver denunciato e di essere stato poi abbandonato dallo Stato, ma viene stritolato lui stesso dal teatrino condotto da una biondina col tailleur, che chiama costantemente in causa il famoso "pubblico da casa", soprattutto per lanciare la televendita dei materassi o delle pentole, interrompendo un discorso che vorrebbe essere serio, razionale, e svelando invece così tutta l'idiozia su cui si basa. E sputa, Serafina Battaglia, sputa e sputa ancora contro quello schermo e contro chi tenta di narrare qualcosa di cui alla fine non sa nulla.

Scomoda, temeraria, "Fina", troppo straripante, a tratti greve, eppure così potente. Uno sputo il suo, come ha rimarcato Sabella, che se fosse stato però praticato da tutti negli ultimi decenni ci avrebbe portato ad una storia diversa. Un atto certamente violento, sprezzante come pochi altri, ma non letale che avrebbe prosciugato i rivoli putridi da cui attinge la linfa e si nutre la mafia. E il libro è anche il racconto di questa rivoluzione mancata, proprio nell'anno in cui si celebra il trentennale delle stragi di Capaci e via D'Amelio: a pensarci bene sarebbero bastati forse un po' di saliva e dieci grammi del coraggio e della rabbia di "Fina", usati in ogni azione quotidiana, per evitarle.

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