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La Norma sciamanica che strega il Teatro Massimo e omaggia Maria Lai e la sua Sardegna

I registi siciliani Ugo Giacomazzi e Luigi Di Gangi firmano una Norma moderna che parla di integrazione, ma anche antica, come leggendarie "janas", fate arcaiche devote alla Luna che insegnavano a filare alle donne

Nel cuore dell’Ogliastra in Sardegna, nel 1861, il costone di una montagna si staccò travolgendo un’abitazione. Delle tre bambine coinvolte solo una si salvò, e teneva in mano un nastro celeste. Il fatto divenne leggenda (‘La grotta degli antichi’), e la leggenda divenne fiaba artistica. Quasi cento anni dopo, l’otto settembre del 1981, nella piccola comunità sarda di Ulassai una minuta artista, un po’ sciamana e un po’ ‘jana’ (fata arcaica della tradizione sarda che insegna alla donne l’arte della tessitura), dispiegò un nastro celeste lungo 27 chilometri attraverso tutto il paese, finestra dopo finestra, casa dopo casa, vicolo dopo vicolo, sino alla cima di quella stessa montagna franosa.

Maria Lai con la sua maestosa opera di land art, ‘Legarsi alla montagna’, univa l’abitato alla sua montagna instabile, reinterpretando quella leggenda ascoltata sin dall’infanzia. Il piccolo atollo arroccato nell’Ogliastra, se non nella sua morfologia, nella narrazione fantastica e nella arcaicità di figure prese in prestito dalla sua terra, è divenuto lo spazio in cui i due registi Ugo Giacomazzi e Luigi Di Gangi hanno ambientato la loro Norma, in scena al Teatro Massimo di Palermo (dal 19 al 28 febbraio).

L’intrecciarsi e l’annodarsi di tessuti si innalzano sopra la terra sacra al dio Irminsul, nella Gallia, dove si svolge l’opera, come il nastro celeste della Lai sul cielo di Ulassai, dando vita a una foresta claustrofobica fatta di reti e barriere fitte da fendere, simbolo di «un muro che chiede di essere abbattuto», come spiegato dai due registi. È il sottotesto moderno di questa opera che parla di una società in cui si ergono inutili barriere, e dove il messaggio di integrazione è rimarcato nella scelta dei «due figli di Norma in scena, uno bianco e uno di colore». Il nastro celeste qui è rosso, come le tumultuose passioni che dividono la sacerdotessa tra il suo ruolo di vestale e quello di amante tradita dal nemico del suo popolo, il proconsole romano Pollione, ma anche padre dei suoi figli. Norma pazza di dolore si muoverà all’infanticidio senza però compierlo.

La Norma sciamanica che strega Massimo - le foto

E' quanto invece accade nel dramma francese di Alexandre Soumet, ‘Norma ou l’infanticide’, a cui Vincenzo Bellini preferirà una Norma eroina e non vittima, che confesserà il proprio tradimento al padre, il grande sacerdote Oroveso, e all’intera comunità, cerando la redenzione nel proprio rogo. La scenografia è un dispositivo di vita e di morte in cui vi sono impigliate le vite di tutti i protagonisti. Arcano e moderno si fondono in un dialogo continuo con il simbolico: tele, brandelli e tessuti sembrano essere le pendenze di una fragilità umana che soccombe agli istinti carnali, disattendendo anche i più sacri voti. Il filo è cordone ombelicale che dalla terra raggiunge la ‘casta diva’, immagine diafana tratteggiata da stracci che danno l’impressione di crateri lunari.

E’ una Norma mediterranea, la sacerdotessa del tempio di Irminsul potrebbe essere benissimo una della ‘janas’ della Sardegna prenuragica, celtica e magica: fate adoratrici della Luna, sacerdotesse di Diana signora dei boschi, tessitrice del destino umano come una Parca. Sotto questa prospettiva la scena ci appare come una imponente installazione di arte contemporanea omaggio all’arte sciamanica della Lai, in cui domina la luna che si moltiplica e si accende talvolta in corone di luce come fosse un bisbiglio compassionevole, o il terribile vaticinio della morte di Pollione e Norma.

Nella fissità della scenografia, che sostanzialmente non muterà dall’inizio alla fine, centrale è il ruolo delle luci curate da Luigi Biondi, che pesa sull’evoluzione narrativa. Un costrutto cromatico che spazia dalle sfumature del rosso a quelle dell’arancio, del viola e del blu. Quasi fosse un occhio di bue, impiegato per amplificare il gioco emotivo, la luce talvolta scende netta sul volto di Norma col conseguente ‘spegnimento’ del coro, parte eccezionale della messinscena, come eccellente è il livello di tutte le masse artistiche. Immensa nel ruolo il soprano Mariella Devia che, nonostante il cast stellare, spicca tra tutti confermandosi regina del repertorio belcantistico, con una summa di caratteristiche vocali che la rende artista indiscussa della scena lirica dal 1973, quando debuttò in quello che è diventato il suo cavallo di battaglia, ‘Lucia di Lammermoor’.

E' doveroso ricordare lo spessore di questa artista dall’invidiabile longevità vocale, che a quarant’anni esatti dal suo debutto operistico decise di accettare il ruolo di Norma per la prima volta (Teatro Comunale di Bologna, il 13 aprile 2013), spiegando di aver atteso che la sua voce fosse matura per un ruolo così complesso. Sul palco del Teatro Massimo la Devia è di nuovo Norma all’età di 68 anni, con una freschezza vocale e una dote interpretativa stupefacente. Un timbro pulito e limpido, gli acuti perfettamente cesellati, fraseggi e accenti recitativi giusti con una dizione altrettanto perfetta. La presenza scenica della Devia è imponente, il suo registro acuto così vibrante, l’eleganza del suo gesto scenico, carnale o contenuto quando richiesto, surclassano talvolta la seppur brava collega Carmela Remigio, soprano nel ruolo di Adalgisa, un alter ego della Norma giovane sedotta nella stessa maniera da Pollione, che vuole rapirla ai voti e condurla a Roma. Ed è proprio nel duetto tra Norma e Adalgisa, ‘Oh, rimembranza’ (Atto primo, Scena ottava), che si dà luogo a un gioco scenico complementare e contrastante. Sebbene il registro sopranile delle parti sia lo stesso, la gestualità della Remigio è più veemente, a tratti convulsa rispetto lo spessore drammatico più compito della Devia. Il duetto è comunque uno spettacolo sonoro ed emotivo sopraffine così come quello finale tra Norma e Pollione, interpretato dal tenore John Osborn, dal piglio scenico sicuro, come il ruolo richiede, con una grande estensione vocale. Ottima anche l’interpretazione di Luca Tittoto (Oroveso), voce sonora dotata di un impeccabile legato.

La Norma, in questo nuovo allestimento del Teatro Massimo in coproduzione con l’Arena Sferisterio di Macerata, seduce e a tratti commuove. Tutte le parti che la compongono, perfettamente modulate tra loro, sono riuscite a restituire la bellezza del capolavoro di Vincenzo Bellini: dalla scenografia ai cantanti, dal Coro diretto da Piero Monti all’Orchestra innalzata quasi al livello della platea «per dare un suono diretto, chiaro, pulito, più fedele possibile allo stile di Bellini», come spiegato dal suo direttore Gabriele Ferro. Altra piccola perla che non deve passare inosservata è l’opera della costumista palermitana Daniela Cernigliaro, che, insieme all’Accademia di Belle Arti di Palermo, ha realizzato 120 costumi di scena con cinquemila metri di cordini, fettucce, tessuti, tagliati e lavorati a mano; mentre per gli intrecci dei costumi dei guerrieri (che ricordano vagamente i personaggi del fantascientifico ‘Dune’ di David Lynch) sono state utilizzate le corde dismesse della graticcia del teatro Massimo. Meritata la pioggia di applausi durante tutta la messinscena per poi esplodere in una prolungata ovazione finale durata quasi dieci minuti. Peccato però, per noi spettatori intendo, non aver osato di più e aver chiesto alla Devia di regalarci il bis della sua sacrale interpretazione di ‘Casta Diva’.

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