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‘Le Cirque’ indimenticabile: equilibrio perfetto tra leggerezza e lirismo felliniano

Quasi due ore di intensa poesia e una bravura lunga oltre quarant'anni. Jean-Baptiste Thierrée e Victoria Chaplin incantano e divertono un pubblico di adulti e bambini

La gente si attarda a prendere posto, sono in tanti a cercare la combinazione esatta della propria fila e poltrona. Scusi, il mio posto è proprio quello lì. Fa caldo. Il chiacchiericcio dalla galleria mostra anche il volto giovanile pronto a godersi uno spettacolo che promette magia senza mai urlarlo. Gli adulti si attardano scambiandosi commenti letti sul giornale e sul web, spaventati da tanta aspettativa. Pochi minuti di buio sulla scena accompagnato da un silenzio immediato. Un uomo dai folti capelli bianchi mangia il palco e pian piano ci scarta tutti, spiazzandoci con la sua magia surrealista, ionesca, che si prende un po’ in giro, e forse talvolta lo fa anche con noi, terzo attore sul palco. E’ Jean-Baptiste Thierrée, artista e scrittore francese, impegnato in brevi scene divertenti che ricordano i vecchi intermezzi buffi che si alternavano all’opera seria, e in questo caso che si alternano con momenti più nostalgici e poetici affidati alla grazia eterea di Victoria Chaplin. Ma la poesia sta proprio in questo equilibrio perfetto tra leggerezza e lirismo felliniano.

E’ la costruzione di un circo metafisico portato nel teatro da oltre quaranta anni (di successi mondiali), il loro ‘nouveau cirque’, con due parallele che al centro si ricongiungeranno. Le Cirque invisible è un insieme di quadri differenti che si sfiorano e incastrano perfettamente costruito con Victoria Chaplin, il cui incontro amoroso e professionale avvenne negli anni ’70, dando vita a un connubio artistico perfetto che ci ha donato perle come lo spettacolo in scena al Biondo di Palermo. Thierrée fa il suo ingresso con indosso abiti stravaganti, sempre differenti, necessari strumenti di scena quasi sempre en pendant con una valigia che porta con sé sul palco a ogni intramezzo di magia, illusionismo e cabaret. È un gioco fanciullesco come qualcuno intento a far ridere un bambino nella culla facendo le boccacce. Il suo ‘hop hop’ è un invito al pubblico a partecipare, a ridere insieme a lui. Ed è facile seguirlo soprattutto quando nello sketch ‘zebrato’ coinvolge il pubblico a muovere le mani in una maniera così esilarante che è impossibile non ritrovarsi, quasi spiccando un piccolo balzo dalla poltrona rossa, a fare i gesti che il buffone ci comanda. Le risate, fragorose, sono difficili da trattenere.

Eppure se lo chiedeste ai molti seduti intorno a me, in quelle scene non vi è nulla di esageratamente comico, ma brillante lo è ogni gesto, ogni pausa calibrata, ogni ‘hop hop’, ogni sorriso beffardo e allargato che fa sorridere. Il circo invisibile ti inghiotte perché a Jean-Baptiste Thierré, splendido nel suo ‘silenzioso atto burlesque’ (usando una sua affermazione), va soprattutto il merito di saper abilmente rubare lo spettatore dal proprio estraniamento e tirarlo giù dentro un tendone rosso e bianco, forse di metà secolo scorso, con le lunghi funi metalliche ben piantate su un suolo che scorge la città da lontano. Felliniano (dopotutto Thierrée ha affondato le mani in un passato al fianco di Fellini) che scorgiamo sulla scena in tante piccole meraviglie; la Chaplin è una Masina perfetta che fu al fianco del maestro di Otto e ½ in ‘Clown’ (1971), funambola e trasformista eccellente, figlia di chi fu figlio e grande padre del cinema, Charlotte.

Lo spettacolo è surreale, i due personaggi inizialmente sembrano slegati, così che la risata della scena precedente, calcata con fermezza e genialità da un non più giovanissimo Jean-Baptiste Thierrée, deve imparare ad arrestarsi nel fugace buio che fascia l’ingresso di Victoria Chaplin, maestosa nella sua fragilità addolcita dalla poesia dei suoi racconti muti, corporali. Quel corpo che diventa orchestra, con indosso bicchieri, piatti, scodelle di vetro e cucchiai che fa vibrare in suono e da questo a musica coordinata a sobrie movenze. Le parole arretrano rimanendo impigliate in quella gestualità lenta, caricadi suggestione e sensualità senza tempo. La contrazione delle dita, la plasticità del gesto, il volto maschera, riportano al teatro giapponese.

E’ un corpo in continua trasformazione che sparisce dentro scatole piccole, cavalca ippogrifi di sedie, che gioca con gli oggetti come una bambina che nella propria stanza, spinta dalla noia, inizia a trasformare le cose inanimate intorno e a addomesticarle con la fantasia. Una mano che piega il reale e il circostante disincantato convertendoli in mondi magici, animali fantasmagorici fatti di ruote di bici, grossi vasi, tavolini da caffè roteanti, tessuti fasciati al corpo e poi smontati, assemblati a nuova vita, e poi ancora abbandonati esanimi sul palco, come la pelle di un serpente che lascia posto ad un’altra esistenza: un cavallo, un drago fumante, un uccello, uno zoo immaginario. Gli animali sono presenza costantemente richiamata nello spettacolo, sul palco una decina di conigli, oche e piccole colombe, qualcosa a cui forse oggi si potrebbe rinunciare.

Sulla scena arrivano anche tecnici vestiti di nero come kuroko che hanno barattato parte della loro invisibilità indossando guanti bianchi che risplendono di una luce violetta, disposta alla destra del palco. Ripuliscono la scena fasciandosi in un buio che rigettano, come lucciole si muovono da un punto all’altro, e al resto ci preparano. Niente di così sperimentale, è vero, ma di incantato come tutto il resto. Un resto fatto di gag, sorrisi, applausi a scena aperta e sinuosa magia che ti cala addosso e ti accompagna sino a fuori, a scene spente. Allo spettatore - come scrivono sul comunicato stampa - non resta altro che dimenticare, per poche ore, di essere cresciuto. Questa parentesi fatata, portata in città dal Teatro Biondo, ha soddisfatto l’attesa e confermato il successo di uno Stabile che ama prendersi cura dei nostri sguardi e di ogni più piccola papilla esperienziale. A luci accese gli applausi continuano, tra qualche “peccato…”, “che bellezza, che magia”, “bravi” e ancora “più bravi”, che tributano i due attori, com'è giusto che sia, ad ogni ingresso. Il teatro di questo circo invisibile è straripante.

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