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Il Guillaume Tell di Michieletto e gli inutili pruriti perbenisti per la scena dello stupro

L’opera civile di Damiano Michieletto dà vita a una spettacolare e imperdibile messinscena che apre con successo la Stagione 2018 del Teatro Massimo. E se tra il pubblico c’è chi alla scena di violenza ha gridato “vergogna”, la gran parte ne ha difeso la regia con lunghi applausi finali e frasi di rimprovero dirette ai chiassosi puritani

La signora seduta nella poltrona al mio fianco batte il tempo con il piede, si sistema la stola rossa sulla blusa a fiori, e riprende a dirigere con la mano una overture spettacolare. Durante la prima delle due pause previste, con ancora gli occhi chiusi si piega in avanti, poggia le sue mani sulla spalla delle due giovani studentesse liceali che siedono di fronte, colpevoli di aver parlottato durante l’esecuzione  dell’overture (non lo faranno più). E’ un gesto pieno di tenerezza, quasi un abbraccio, come la voce che inizia pian piano a raccontargli la potenza di una storia che si sta per svolgere. Col suo accento nordico racconta di essere venuta a Palermo proprio per vedere il ‘Guillaume Tell’ diretto da Damiano Michieletto, incuriosita dalle tante critiche spese per il suo debutto registico alla Royal Opera House di Londra.

Occorre infatti una piccola parentesi sull’operazione di censura che Michieletto ha dovuto fare alla propria regia, purgando quelle scene ritenute troppo esplicite e violente: uno stupro di gruppo consumato dai soldati di Gesler a danno di giovani donne svizzere, un nudo e l’uso di una pistola come fosse un giocattolo erotico. Il pubblico di Covent Garden non ha gradito, così da far fare alla notizia il giro del mondo, costringendo al taglio di alcuni passaggi nella versione che ha aperto la stagione 2018 del Teatro Massimo di Palermo. Sembra rimarcarlo quel dito alzato più volte a indicare ‘una sola donna’, quando l’iniquo governatore spinge i suoi soldati a sceglierla tra il gruppo di oppressi per poi consumare l’odiata violenza. Eppure questa scena così stilizzata, quel nudo ora affidato a una tuta color carne indossata dalla giovane vittima, è stato accolto da uno sparuto gruppo di spettatori del Massimo con “Vergogna, vergogna”, “che schifo”. Un rigurgito
perbenista (fuori luogo) che è stato immediatamente rigettato dal restante pubblico con “Silenzio”, “State zitti! Bravo Michieletto”, “cretini”. Il Guillaume Tell del regista veneziano è uno straordinario tableau vivant che si evolve e ci mostra con quadri sempre differenti, sebbene si abbiano solo due cambi di scenografia, l’intreccio delle storie che compongono l’intero dramma.

E’ il risultato di una regia esaltata da tutti i comparti artistici: le luci curate da Alessandro Carletti e le scene di Paolo Fantin. La direzione musicale di Gabriele Ferro viene più volte applaudita confermando le sue doti di interprete rossiniano alla guida di un’orchestra che ha emozionato. Un ‘Guillaume Tell’ che onora l’ultima opera rossiniana non solo nella sua  esecuzione musicale, ma anche in questa rilettura moderna e civica (un senza-tempo ricollocato nella prima metà del ‘900), con l’uso di interessanti espedienti stilistici e tecnici. Dopotutto, Rossini diede vita a un’opera storico-politica che narrava episodi realmente accaduti per la liberazione della Svizzera.

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La lettura icastica di Michieletto rispolvera la tradizione, non ha niente di morboso o tautologico, né di enfaticamente gratuito come è stato scritto; scevra da ambiguità morali ci istiga alla verità. La violenza per nulla pornografica diviene racconto dal forte valore estetico, capace di esaltare la versatilità del dramma rossiniano. Il sadico governatore Gesler, idolo delle truppe, è chiaramente un esponente della destra nazista; i costumi pensati da Carla Testi per l’esercito invasore ricordano le divise grigie della Gestapo. La crudeltà è dunque reale non immaginata: la violazione del corpo, le lacerazioni provocate dagli oppressori, il gesto di soldati che invitano i bambini a giocare con le armi, a sparare, sino all’atto più riprovevole: corromperne la fanciullezza e spingerli, senza riuscirvi, a compiere l’uccisione di Arnlod. Chi non ha già visto tutto questo? Un percorso di consapevolezza (alla luce delle critiche mosse) a cui molti forse preferiscono sottrarsi, perdendosi questa elevazione lirica della violazione. Lo stesso Kubrick se ne servì in ‘Arancia Meccanica’, con crude scene di violenza cui la partitura rossiniana fa da colonna sonora. Non può dunque che dispiacere questa privazione visiva dell’opera originaria di Michieletto. Una  mancanza sopperita dai protagonisti che si fanno carico di questo neorealismo affidato alla tensione dei gesti, alla  partecipata recitazione che non risulta mai affettata.

Chi convince meno è il soprano Anna Maria Sarra, nei panni di Jemmy, giovane figlio di Guillaume, con una recitazione troppo carica e qualche difficoltà nelle note alte, così da restare talvolta indietro nelle parti corali. Sarà forse per l’elevata caratura degli altri protagonisti, specialisti del belcanto, ognuno meritevole dei lunghi applausi finali. Luca Tittoto nei panni dello spietato Gesler mostra un vigore personalistico che ci restituisce perfettamente un personaggio spregevole; così come bravi si mostrano nel duetto di innamorati il soprano Nino Machaidze (Mathilde, principessa della casata degli Asburgo) e il tenore Dmitry Korchak, che con agilità ritmica riesce nel difficile ruolo di Arnold Melcthal (per i complessi e numerosi acuti richiesti), costretto a rinunciare all’amore per la propria nemica e vendicare il padre ucciso dagli invasori. L’interpretazione recitativa di Enkelejda Shkoza (Hedwige, moglie di Tell) e di Roberto Frontali (Guillaume Tell) si sposano con un’abile sensibilità timbrica; fortemente emotiva soprattutto nella scena terza in cui Guillaume e il figlio vengono presi dalle guardie di Gesler, e il temerario arciere, piegato dal dolore di padre, regala al pubblico una preghiera al figlio struggente. Sul palco, gli eroi a vario titolo sono tanti. Tra la fine del III atto e l’inizio del IV assistiamo al rovesciamento
della personalità di Jemmy, che riconoscendo l’eroismo del padre lo accoglie a sé superando il rifiuto che li aveva separati, divenendo incarnazione di fede e anelito di libertà che monterà nel popolo oppresso e lo guiderà al riscatto finale. Lo strumento del fumetto a video, richiamato dopo l’apertura iniziale è un’altra delle scelte interessanti del regista veneziano, peccato per qualche sbavatura tecnica nelle riprese, ma il risultato è un carico emozionale che si sposa perfettamente con la musica. 

Degno di nota è anche il silenzioso personaggio ‘fuoricampo’, ruolo affidato ad Alberto Cavallotti, incarnazione dell’eroe medievale dei fumetti che sfoglia Jemmy ad apertura del dramma, idealizzazione che lo porterà a odiare un padre  all’apparenza lontano dal proprio immaginario eroico. Quell’alter ego non è altro che il destino che si imporrà alle remissioni di Guillaume, restituendolo ai panni dell’eroe. Bellissima la scena in cui Cavallotti fascia i lacci della faretra ai polsi di Tell, una crocifissione al coraggio. L’intera messinscena è un crescendo lento che repisce lo spettatore.

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Quattro ore e mezzo e non sentirle. Ciò a cui assistiamo è una parabola dove regna una violenza demiurga, dalla quale è però possibile riscattarsi. È la speranza a trionfare, affidata al ramoscello piantato da un bambino sulla terra sterile su cui ha a lungo governato un enorme albero sradicato, morto, linea di confine tra il bene e il male: "Se veniamo privati della possibilità di scegliere tra il bene e il male perdiamo la nostra umanità?" disse Kubrick a commento del suo film. L’albero si libra sopra la testa del popolo vittorioso come ricordo lontano. Un’immagine corale dal forte impatto visivo che richiama la funzione del coro nelle tragedie greche, e ci ricorda nella sua rappresentazione plastica il capolavoro di Giuseppe Pellizza da Volpedo, Il Quarto Stato. Merito di un uso sapiente e drammaturgico delle luci che amplificano l’esperienza visiva, grazie anche all’espediente di una doppia recitazione affidata alle ombre che ingigantite si stagliano sullo sfondo, donando un altro punto di vista allo spettatore.

Le luci di Alessandro Carletti sono poetiche quasi letterarie, meritano infatti qualche parola in più. Caravaggesche all’inizio con un taglio che fissa l’attenzione su una porzione di tavolo che rappresenta il focolaio di Guillaume; si allargano mostrando il resto del popolo elvetico, diviso a gruppi intorno a un tavolo, un’immagine conviviale distaccata che richiama ambientazioni hopperiane. I tagli cromatici si evolvono, materializzano l’architettura musicale, un bianco e nero che si frappone ai colori più tenui della scena asciugandola. Altro momento di spiazzante bellezza è il riverbero metafisico calato su un Melcthal dormiente, il verde funereo, come la sala di un obitorio,  diventa narrazione del cambiamento. Una cornice di corpi infermi gli danza intorno, come demoni che assillano il giovane e ne infestano il sonno, per poi al suo risveglio cadere sconfitti dal moto di ribellione che lo guiderà a riscuotere le proprie viltà. È la presa di  consapevolezza dell’ineluttabile destino che deve compiersi.

Il Guillaume in scena al Massimo è un’opera politica, civile, una denuncia fortemente attuale che fa bene, e ci fa rimpiangere i cinquant’anni di assenza dell’opera dal palco palermitano. Lo stato di tensione perenne coglie nel segno provocando sussulti e anche ingiustificata indignazione: lo spettatore riconosce il linguaggio visivo della società in cui vive. Necessario oggi più che mai, occorre ribadirlo, se pensiamo ai recenti attacchi sessisti contro la presidente della Camera, Laura Boldrini, in cui il dissenso politico diviene alibi per messaggi che incitano alla violenza e allo stupro. O, ancora, lo spiacevole post sui social del giovane fumettista Mattia Labadessa che in qualche modo “normalizza e incoraggia” la violenza carnale sulle donne, per dirlo con le parole usate dalla giornalista Ramello nel suo articolo su Wired. E’ di questa cultura dello stupro di cui dovremmo indignarci, e non di una mediazione visiva che ci invita alla riflessione, compito che l’arte deve assurgere per non essere vuoto esercizio stilistico. Così che al Massimo va il merito di avere fatto la scelta coraggiosa di una regia coraggiosa, proposta per la prima volta nella versione originale in lingua francese, capace di regalare agli spettatori una messinscena da non perdere.

***

GUILLAUME TELL | opera in quattro atti
Libretto di Étienne de Jouy e Hyppolite Bis
Musica di Gioachino Rossini
Direttore Gabriele Ferro
Regia Damiano Michieletto
Regista collaboratore Eleonora Gravagnola
Scene Paolo Fantin
Costumi Carla Teti
Lighting designer Alessandro Carletti
Assistente alle scene Gianluca Cataldo
Assistente ai costumi Giulia Giannino
Assistente lighting designer Ludovico Gobbi
Personaggi e interpreti
Guillaume Tell Roberto Frontali (23, 25, 28, 31) / Davide Damiani (27, 30)
Arnold Melcthal Dmitry Korchak (23, 25, 28, 31) / Enea Scala (27, 30)
Walter Furst Marco Spotti
Melcthal Emanuele Cordaro
Jemmy Anna Maria Sarra
Gesler Luca Tittoto
Rodolphe Matteo Mezzaro
Ruodi Enea Scala (23) / Pietro Adaini (25, 27, 28, 30, 31)
Leuthold Paolo Orecchia


 

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