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Sabato, 20 Aprile 2024
AMARCORD1983

AMARCORD1983

A cura di Alessandro Bisconti e Francesco Sicilia

Ray Mancini e la morte sul ring, 40 anni fa quel pugno bagherese che cambiò il pugilato per sempre

Storia di Boom Boom, talento siculoamericano che nel novembre 1982 a Las Vegas uccise il coreano Duk Koo Kim nel match che metteva in palio il mondiale WBA dei pesi leggeri

"Ancora una tragedia, ma davvero non si poteva evitare?". "Sul ring si muore e non è giusto". Sono solo alcuni dei titoloni sui giornali che spuntano in edicola la mattina del 16 novembre 1982. Quarant'anni fa esatti. La notizia - che scuote l'intero pianeta - è la tragica fine del pugile coreano Duk Koo Kim. E' in condizioni irreversibili, un'emorragia cerebrale lo sta lentamente rubando alla vita. A "ucciderlo" è un pugno del ventunenne Ray Mancini, di sangue bagherese. Ray (che oggi ha 61 anni) nel 1982 è uno dei più famosi pugili italoamericani. Il padre Lenny - anche lui pugile - è nato in provincia di Palermo per poi emigrare negli Stati Uniti. La tragedia si consuma in un pomeriggio di metà novembre a Las Vegas, nell'arena sistemata all'esterno del Caesar's Palace. Mancini e Kim combattono per il mondiale WBA dei pesi leggeri.

Il siculoamericano, enorme talento della boxe, difende il titolo per la terza volta. E' un fenomeno, ha da poco scollinato i 20 anni, ed è destinato a un futuro da leggenda. Merito del suo pugno pesante, del carisma, dell'agilità che lo contraddistingue dentro al ring. Il suo stile è tutto racchiuso nel suo soprannome: "Boom boom". I suoi pugni sono veloci e imprevedibili. E' l'eroe della gente. Nel cuore si porta dentro la tragedia del fratello ucciso per sbaglio dalla fidanzata che gli aveva sparato in testa. Nella testa c'è la voglia di emulare il papà Lenny, ex pugile che durante la guerra era stato ferito da una granata tedesca e fu costretto a lasciare la boxe. Di fronte ha un coreano di 27 anni, cresciuto per le strade di Seul lustrando scarpe. Di origine povera, Kim disputa da sfavoritissimo il match della vita. Sarà l'ultimo. 

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E' un incontro senza storia. Mancini domina, ma il coreano resiste. Non può mollare. Da poco ha scoperto che sarebbe diventato padre. Vuole dedicare la vittoria al figlio che verrà. La notte prima non ha dormito e nella sua camera d'albergo che lo ospitava aveva scritto in coreano la frase: "Uccidere per non essere uccisi". Kim riesce a trascinare il match a lungo. Viene messo al tappeto all'undicesima ripresa ma si rialza. L'incontro assume una piega drammatica al tredicesimo round: Kim venne colpito 39 volte al volto ma nonostante questo al suo angolo nessuno getta la spugna. Il definitivo knock-out della ripresa successiva. Un destro di devastante potenza colpisce Kim che perde i sensi. Il match è finito, il coreano viene portato in ospedale ed operato per un versamento di alcuni centilitri di sangue nel cranio. Non riprenderà mai conoscenza e muore quattro giorni dopo.

Il mondo viene scosso da questo epilogo così inaspettato e si mobilita. Perfino la chiesa cattolica prende posizione. Il pugilato diventa uno sport assassino, da disciplina nobile si trasforma in brutta e cattiva. Da ogni Paese del mondo arriva la richiesta di abolire la boxe. Da quel momento cambiano le regole del pugilato: 12 riprese al posto di 15, ring con più corde, Tac obbligatoria, più tutela sanitaria.

Come per un terrificante effetto domino la tragedia si trascina altre tragedie. A quattro mesi dal match, la madre di Kim si toglie la vita scolandosi una bottiglia di pesticida. Poco dopo Richard Green, l’arbitro dell'incontro, si spara alla tempia, forse stritolato dai rimorsi per non aver interrotto il match in anticipo. Con i suoi pugni Ray Boom Boom Mancini ha ucciso tre persone. La sua carriera invece di decollare inizia a rallentare nonostante la giovane età. Nel cuore del pugile bagherese pesa come una zavorra la triste fine di Kim. Il fuoco di Mancini si spegne. I suoi pugni smettono di fare scintille. Perché in quel pomeriggio di Las Vegas muore anche una parte di lui. Per tutti è un killer.

Continua a combattere ma non è più lo stesso. Cade in depressione, poco dopo ammette: "Kim è morto una sola volta, io mi sento come se morissi ogni giorno". Prende tempo, continua, si ritira. Poi ci ripensa. "Avevo appena 24 anni, ma dentro ero morto. Sono rientrato e di nuovo ho abbandonato", dirà. Alla fine degli anni Ottanta torna nella sua Bagheria per dei match di esibizione. La città lo acclama per celebrare l'evento. Pochi sorrisi, tanti demoni. E un macigno troppo grande sulle spalle. Pesante come il pugno che ha cambiato la storia della boxe.

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