"Rosalia e a Santuzza"
"Rosalia e a Santuzza"
"Cu niesci arriniesci Rosalia. Cu niesce arriniesci."
Sicca com'un chiovu e curta comu na picciridda, nonna Santina si reggeva con una mano sul comò della camera da letto. I capelli, ammugghiati tutti insieme, come un'enorme sarda a beccaficu erano diventati una cosa sola con i suoi occhi ammammaluccuti.
Taliava fissa a Rosalia, la sua unica nipote; provava a parlarle ma la voce puntualmente la tradiva. Nel frattempo la luce picchiusa della stanza, contribuiva ad appesantire sensibilmente l'atmosfera.
Per riprendersi, nonna Santina fece due passi, ciondolando come un pendolo a dritta e a manca e di botto s'arripigghiò.
"Cu niesci arriniesci."
"Cu niesci...... arriniesci." Ripetè ancora per incoraggiare la nipote e macari pure a se stessa.
Rosalia era una bedda figghia. Taliava a so nonna composta come un soldatino. Gli occhi ed il cuore pieni di tristezza, ma senza chianciri.
Nonna Santina fin da piccola le aveva insegnato che per nessuna ragione al mondo si doveva piangere.
"Rosalia un chianciri" l'ammoniva "picchi si chianci, ti s'ammalano l'uocchi e diventi uorba"
Rosalia era talmente terrorizzata dall'idea di diventare cieca che quando non riusciva a trattenersi e le scappava una lacrima, restava sveglia tutta la notte a pregare tutti i Santi del cielo di salvarle la vista.
Faccia a faccia per l'ultima volta, Nonna Santina e Rosalia si guardavano.
"Nonna" sospirò la ragazza come per spronarla a parlare ancora.
Risoluta nonna Santina: "Figghiuzza mia. Ma chi t'a diri! Statti quieta e un ti scantari, chi a Santuzza t'accumpagna"
All'indomani Rosalia aprì gli occhi che manco erano le cinque del mattino. Sembrava di stare dentro un frigorifero . Delicatamente alzò la tendina.
Il vagone su cui viaggiava, ormai da più di 16 ore, sembrava inghiottito da una nuvola. Il vetro era agghiacciato. L'impianto di riscaldamento del treno aveva dato forfait; probabilmente voleva contribuire nel dare a Rosalia il miglior benvenuto possibile.
La nebbia ogni tanto si dissolveva e lei curiosa e spaventata, cercava di strappare con gli occhi un pezzo di paesaggio.
"Ma unne ivu a capitare" pensava tra sé è sé".
Qualche ora dopo, la corsa era arrivata a destinazione.
Rosalia prese la valigia e scese dal treno.
Il suo vagone si trovava in coda e la distanza per raggiungere l'interno della stazione le sembrava infinita. Proprio la, in fondo accanto l'edicola, la stavano aspettando dei perfetti sconosciuti meglio noti come gli zii di Milano.
Camminava a fatica con quella valigia mezza spaccata, perché carica ben oltre la propria capacità.
Tutto il corpo era addormentato per il freddo e la paura. Camminava ma il corpo le restava addormentato. Non riusciva a sentire i piedi, le mani, il naso, niente.
Davanti a lei due ferrovieri stavano chiacchierando. Indossavano una camicia con i primi due bottoni aperti; dettaglio che contribuiva ad accrescere quel doloroso senso di disagio.
Prima di raggiungere la stazione, a fianco dei binari un gigantesco cartellone riportava l'immagine di una spiaggia assolata. Sotto la scritta: "Vieni in Sicilia".
Rosalia si fermò. Avrebbe voluto tirare quella valigia di cartone tra i binari, fare dietro front e tornare a casa. Pure a piedi. Strinse il manico della valigia così forte che quasi lo staccava e cominciò a tremare.
"Rosalia un chianciri".
Le vennero in mente le parole della nonna.
".....un ti scantari chi a Santuzza t'accumpagna"
Sì fece coraggio. Camminando a fianco di quei binari stava definitivamente diventando donna.
Rosalia continuò a camminare per tanti anni senza tornare più a Palermo. Camminava e piano piano ben si adattava alla nuova realtà.
Un cammino a metà strada tra un processo d'integrazione ed un esilio.
Dopo quasi dieci anni si guardava bene dal difendere il suo accento palermitano.
Era giunto il momento di tornare a far visita alla sua terra. Era luglio e tra pochi giorni il Festino della Santuzza.
Palermo era invecchiata in tutto quel tempo e Rosalia se ne accorse immediatamente.
Da Piazza Indipendenza guardava Porta Nuova con le impalcature a sorreggere i Mori.
"Canciasti tu o canciavu io?" si domandava.
Era come se la città avesse perduto quel fascino che gliela faceva sentire sua.
Le balate della vucciria erano asciutte, Via Oreto sembrava la Chinatown di via Sarpi a Milano. Il bar Mazara aveva chiuso e al posto di Fiorentino in via Roma aveva aperto un altro prestigioso negozio, ma di una multinazionale del lusso.
I McDonald's avevano rimpiazzato tutti i lapini di pane e panelle. E se qua e là in periferia abbondavano i centri commerciali, il centro storico pullulava di negozi che esponevano cartelli con su scritto: "LIQUIDAZIONE PER CHIUSURA ATTIVITÀ"
Anche la gente sembrava non essere più quella di prima ed il Festino, con tutto il rispetto per la Santuzza, le era sembrato una farsa, di un caos non più festoso come un tempo, ma desolante.
Un giorno prima di lasciare Palermo, all'incrocio tra via Maqueda e corso Vittorio Emanuele vide affissa al muro un'immagine della Santuzza, provocatoria e disarmante allo stesso tempo.
Un disegno della Santuzza che stringe in una mano una valigia di cartone. Sconvolta e commossa Rosalia si fermò a guardarla e scuotendo la testa istintivamente esclamò: "Santuzza, ma chi ci fai puru tu, cu na valigia i cartuni"
L'immagine prese vita paralizzando di stupore Rosalia e miracolosamente le rispose: " minni staiu iennu. Cu niesci arriniesci".