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Giovedì, 28 Marzo 2024
Cronaca

La tratta dei bambini contesi, fino a 200 mila euro per un “recupero”

La mente del gruppo era un norvegese, il regista dei traffici era uno svedese, ma la base operativa era a Capaci ed era gestita dall'olimpionica di vela, Larissa Moskalenko che da anni viveva a Palermo. Ecco come avvenivano i rapimenti

L'operazione di "recupero" di un bambino conteso poteva costare fino a 200 mila euro. E a mettere a disposizione le sue barche per il traffico di bambini sarebbe stata l’ex campionessa di vela ucraina Larysa Moskalenko, medaglia di bronzo a Seul ’88, da anni abitante a Palermo e titolare della società di noleggio di imbarcazioni di lusso "Sicily rent boat". Nell’operazione Caronte quattro sono le persone finite in manette e tre le ordinanze di custodia cautelare da eseguire all'estero (LEGGI I NOMI).

Le indagini sono state condotte dal procuratore aggiunto di Palermo Maurizio Scalia e dal pm Geri Ferrara e portate avanti dal nucleo operativo della compagnia dei carabinieri di Carini. (LE INTERCETTAZIONI: VIDEO). L'attività investigativa è stata avviata nell'autunno del 2012, ed è partita dall'incendio doloro che devastò un albergo da tempo dismesso non distante dall'aeroporto, l'hotel "Porto Rais". Da qui gli investigatori sono risaliti all'organigramma di una associazione per delinquere internazionale celata dietro l'attività di una società di sicurezza norvegese, la "Abp World group", vero e proprio sodalizio di “contractors” per la maggior parte ex appartenenti ai corpi speciali, disposti a mettere le proprie capacità operative a chiunque fosse disposto a pagarli.

Tra i servizi offerti anche il recupero di bambini contesi da genitori di nazionalità diverse. In alcuni casi - è stato appurato - la società organizzava vere e proprie missioni paramilitari che prevedevano sopralluoghi e veri e propri sequestri di persona per portare a buon fine il recupero. L'operazione di "recupero" di un bambino conteso poteva costare fino a 200 mila euro.

DIVORZI E AFFIDAMENTI - Per ogni rapimento, il punto di partenza era sempre lo stesso: il divorzio di una coppia costituita da coniugi di differenti nazionalità e la conseguente decisione sull’affidamento dei figli. Dal momento in cui il giudice affidava la prole ad uno dei genitori (generalmente a quello avente la stessa nazionalità del giudice adito), la parte soccombente, per evitare il drammatico distacco, decideva di lasciare il Paese ospitante portando con sé il figlio, contravvenendo alla decisione delle autorità. Era a questo punto, quindi, che il genitore legittimato ad avere l’affidamento si rivolgeva all’"Abp World”, accettando di pagare decine e decine di migliaia di euro e di mettere in pericolo la vita del figlio stesso (date le modalità del “recupero”) pur di riavere con se al più presto il bambino, senza ricorrere alle vie ufficiali evidentemente troppo lente, difficoltose o dall’esito incerto.

COME AVVENIVANO I RAPIMENTI - Le indagini dei Carabinieri hanno in particolare riguardato un ramo dell’associazione per delinquere dedito all’esecuzioni delle operazioni nel bacino del Mediterraneo. Il modus operandi era pressoché sempre lo stesso e consisteva nel sequestro del minore dall’abitazione dove si trovava e nel successivo trasporto – mediante imbarcazioni ad elevatissime prestazioni (da cui la denominazione dell’odierna operazione “Caronte”) – nell’ Europa continentale, facendo scalo in Sicilia. E’ stato possibile ricostruire che all’inizio di ottobre 2012 ebbe luogo la prima operazione su cui si è basata l’indagine: gli indagati, servendosi di un’imbarcazione condotta da uno skipper di Mazzara del Vallo (lo stesso in quell’occasione si dimostrò pronto a corrompere le aurorità di frontiera tunisine, pur di evitare controlli indesiderati), si recarono a Port el Kantaoui, località turistica della Tunisia, dove rapirono un bambino che poi ricondussero a Palermo, e, quindi, in Norvegia (gli inquirenti stanno cercando la collaborazione delle Autorità norvegesi per ricostruire la vicenda nella sua interezza).

LA BASE OPERATIVA A PALERMO - Poche settimane dopo ebbe inizio la seconda, avente teatro sempre la Tunisia, ma in un località (Chebba Mahdia) dell’entroterra. Anche in questa occasione l’organizzazione logistica dell’operazione fu curata a Palermo, dove gli indagati – sempre monitorati dai carabinieri – alloggiarono per circa due settimane, spostandosi frequentemente da un albergo di lusso all’altro: proprio a Palermo gli indagati si sono messi alla ricerca delle armi con cui eseguire il blitz utilizzando le conoscenze dei contatti locali (addirittura si è cercato di far entrare nel territorio italiano delle armi provenienti dalla Russia, rivolgendosi ad un russo in contatto con un generale della ex Armata Rossa), si dotarono di fascette immobilizzanti, spray urticanti, sostanze narcotizzanti e di un laser. L’intento dichiarato era quello di fare irruzione nella villa tunisina all’interno del quale si riteneva vivesse il bambino, mettere fuori combattimento il personale di sorveglianza con ogni mezzo ritenuto necessario (dalle arti marziali alle armi da fuoco), narcotizzare il bambino e la madre, per poi fuggire il più velocemente possibile.

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