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Giovedì, 28 Marzo 2024
Cronaca

Strage di Capaci, tra rabbia e ricordo: "Dallo Stato ci aspettavamo altro"

Mentre la città si prepara a celebrare i suoi martiri, a prendere la parola sono i familiari delle vittime. Tina Montinaro: "Tante verità devono venire fuori". Alfredo Morvillo: "Diversi colleghi non amavano Falcone". La vedova Schifani: "Sono stati lasciati soli"

Ricordo, celebrazione, speranza ma anche dolore e rabbia. C'è tutto questo a Palermo 23 anni dopo il 1992, l'anno delle stragi di Capaci prima e via D'Amelio dopo. Il 23 maggio, a Capaci, un'autobomba ha fatto saltare in aria il giudice Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo tre agenti della scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro: poche settimane dopo - questa volta in città - l'uccisione di Paolo Borsellino e degli agenti Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.

Mentre la città si prepara a celebrare i suoi martiri, a prendere la parola sono i familiari delle vittime. Ai microfoni di Radio1 Tina Montinaro, vedova dell'agente Antonio Montinaro, ricorda: “Non dimenticherò mai la telefonata, la telefonata al 113 per avere notizie. Mi sono sentita mancare il respiro. E ancora oggi, quando ne parlo, succede la stessa cosa”. "Certe cose - sottolinea - non passano mai, non si riesce a dimenticarle. E forse io non ho voglia di dimenticare, perché tenendo sempre vivo questo ricordo faccio sì che anche gli altri ricordino. Il giorno dell’attentato, mio marito aveva giocato con i bambini, perché lui era un giocherellone. Poi, bello come il sole, se ne è andato in servizio e non l’ho più visto. Antonio è morto per il nostro Stato, per il suo Stato, ha dato la vita per un uomo dello Stato e dallo Stato ci saremmo aspettati qualcosa di diverso. Non voglio dire che siamo al punto di partenza, perché altrimenti io stessa mi sentirei sconfitta, però devono cambiare ancora tante e tante cose e tante verità devono venire fuori. Noi cerchiamo la verità. Vogliamo la verità. Pretendiamo la verità”.

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Alfredo Morvillo, è procuratore della Repubblica di Termini Imerese, ma è anche il fratello di Francesca Morvillo, moglie di Giovanni Falcone. "Quel pomeriggio del 23 maggio del 1992 ero al lavoro come sostituto alla Procura di Palermo - ricorda  - e mi stavo occupando di un sequestro di persona. Mi chiamò molte volte la squadra mobile di Palermo per motivi di lavoro, e quando squillò ancora una volta il telefono ero convinto si trattasse di una nuova comunicazione della Questura. E invece gli stessi funzionari con cui ero in contatto, mi avvisavano di un grave fatto accaduto, di cui non si conoscevano ancora i dettagli ma vi erano delle vittime": "Quando si  è in prima linea come era Giovanni, si fa l'abitudine a convivere con una certa tensione, e si ci concentra unicamente sul lavoro. Non che Giovanni sottovalutasse i rischi cui andava incontro, ma da quando era direttore del ministero di Grazia e Giustizia, a Roma,  aveva un pò allentato l'attenzione alla sicurezza, tanto è vero che qualche volta capitava di andare da soli, senza scorta, a fare due passi o al ristorante, E' noto a tutti - continua Morvillo -  che Falcone avesse maturato rapporti difficili con taluni ambienti giudiziari e questi ostacoli incontrati sono anche all'origine della sua decisione di andare a Roma, al ministero. Alcuni, ben individuati colleghi, lungi dal riconoscere a Giovanni la sua grande capacità analitica e investigativa nei suoi sistemi di  lavoro, al di là della opportunità o meno di lavorare tutti insieme, lo ostacolarono in tutti i modi, addirittura prendendolo in giro e dicendo che dopo la Procura Nazionale Antimafia, il suo obiettivo era creare la 'Procura planetaria'.  In conclusione, all'interno del tribunale vi era una parte di di colleghi che sicuramente non lo amava".

Secondo Morvillo "il tema della solitudine degli uomini migliori dello Stato è assai ricorrente. Io posso dire che, al di là delle risultanze processuali delle inchieste giudiziarie, che non hanno individuato responsabilità al di fuori delle organizzazioni mafiose, un dato è oggettivo, innegabile: se si voleva eliminare soltanto Falcone, non serviva mettere in piedi un progetto criminale così clamoroso, con il rischio di uccidere decine di persone. Giovanni, come dicevo, a Roma aveva un pò allentato le misure di sicurezza, pertanto ucciderlo a Roma non sarebbe stato affatto impossibile, bastava pedinarlo mezza giornata e poi colpire. Chi ha ucciso Falcone, voleva che questo atto avesse una chiara, inequivocabile impronta mafiosa; quindi, fatto a Palermo, con metodi mafiosi, in modo che per tutti fosse evidente che era stata la mafia, che non si potesse pensare ad altro, come a dire "signori, badate che è un fatto di mafia". Inoltre - aggiunge Morvillo - Falcone non viene colpito quando esercita le sue funzioni giudiziarie a Palermo, o quando arresta centinaia di persone, ma quando, forte della fiducia che in lui riponevano il presidente della Repubblica e il ministro di Grazie e Giustizia Martelli, era in grado di indirizzare la politica legislativa antimafia del governo stesso. Su questo non c'è dubbio".

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Per Rosaria Costa, vedova di Vito Schifani, "in questi anni è cambiato poco. I mafiosi sono criminali senza alcuna pietà. Lo sono stati 23 anni fa e lo sono tuttora".  "Allora - aggiunge ricordando le ore successive alla strage -, quando chiesi al giudice Borsellino chi sono i mafiosi, mi disse che potevano essere anche lì, in obitorio, perchè solitamente quando uccidono hanno questa voglia di vedere i volti di chi viene ferito, ci provano proprio gusto a vedere queste persone sofferenti. I mafiosi pensano di essere i padroni della vita e della morte ma sono soltanto degli infelici che si nutrono di ingiustizia e del sangue degli innocenti". "Non c'è stata neanche una tregua - ricorda -. Cinquantasette giorni e poi hanno colpito di nuovo. E lì c'è stata una confusione totale, come a dire: 'Ma cosa sta succedendo, perchè lo Stato non riesce a difendere i propri uomini?'. Perchè la verità è che questi ragazzi sono stati lasciati soli. Non è possibile che in pochi giorni siano riusciti a uccidere undici persone, perchè non dimentichiamo che nelle due stragi sono morti tre magistrati e otto poliziotti. Tutti giovanissimi padri di famiglia. E' stato veramente crudele. La mafia fece collocare quei 600 chili di tritolo sotto un viadotto, come delle bestie".

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