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Sabato, 20 Aprile 2024
Mafia Bagheria

Mafia di Bagheria, in appello pene più pesanti e condanne anche per due assolti

Il processo è quello nato dal blitz dei carabinieri "Reset 2" del 2015. I giudici hanno inflitto 2 anni in più al boss Carmelo Bartolone, che si era salvato la vita finendo in carcere, e ritenuto colpevoli anche Rosario La Mantia e Antonino Lepre, scagionati invece in primo grado. Confermata la sentenza per altri 3

Sei condanne e pene superiori a quelle inflitte in primo grado: la Corte d’Appello ribalta parzialmente la sentenza emessa a giugno del 2018 dalla sesta sezione del tribunale e non certo a favore del clan di Bagheria. Il collegio presieduto da Antonio Napoli ha infatti accolto le richieste del sostituto procuratore generale Rita Fulantelli, che aveva anche impugnato due assoluzioni nell’ambito del processo nato dall’operazione “Reset 2” del 2015.

Il boss Carmelo Bartolone (che si era salvato la vita proprio grazie all’arresto e che nel frattempo è risultato pure positivo al Covid-19) al posto di 14 anni ne ha avuti 16, mentre Rosario La Mantia e Antonino Lepre, che in primo grado erano stati scagionati, sono stati ora condannati rispettivamente a 6 anni di reclusione e a 2 anni e 9 mesi. A Pietro Giuseppe Flamia, soprannominato “il porco”, sono stati confermati 18 anni di carcere. Confermate anche le condanne di Luigi Di Salvo (8 anni) e di Alessandro Vega (3 anni e mezzo). I giudici hanno anche ribadito il diritto al risarcimento di una diversi imprenditori che avevano denunciato richieste di pizzo, così come alle associazioni Addiopizzo, Centro Pio La Torre, Assindustria, Libero Futuro, Confcommercio e Confesercenti, nonché ai Comuni di Bagheria, Ficarazzi, Santa Flavia ed Altavilla Milicia, tutti costituiti parte civile e difesi, tra gli altri, dagli avvocati Ettore Barcellona, Francesco Cutraro, Fabio Lanfranca, Salvo Caradonna, Valerio D’Antoni e Giuseppe Crescimanno.

L’operazione “Reset” dei carabinieri, il cui primo troncone fu messo a segno nel 2013, permise di ricostruire una cinquantina di estorsioni che tanti imprenditori, rompendo il tradizionale muro di omertà, non esitarono a denunciare. Un’inchiesta che fece scalpore proprio perché mise in luce l’imposizione del pizzo a tappeto in diversi comuni della provincia, aree in cui ribellarsi è in genere più complesso rispetto alla città. “Reset 2” è il seguito dell’inchiesta e portò agli arresti nel 2015. Quello che si è concluso ieri in appello è il filone in ordinario, con quello in abbreviato sono già stati condannati altri imputati in secondo grado.

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