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Brusca: "Dovevamo uccidere Martelli, Vizzini e Mannino ma il progetto fu fermato"

Collegato in videoconferenza al processo sulla trattativa Stato-mafia, il collaboratore di giustizia ha rivelato: "Alcuni politici dovevano essere tolti di mezzo perché non avevano mantenuto gli impegni, l'ordine partì da Riina"

Il boss mafioso Leoluca Bagarella, nell'estate delle stragi Falcone e Borsellino, nel 1992, "fu ospitato per un mese, un mese e mezzo a Santa Flavia, nella villa di Gaetano Sangiorgi", il genero dell'esattore Nino Salvo, condannato in via definitiva all'ergastolo per l'omicidio di Ignazio Salvo, avvenuto sempre a Santa Flavia, località balneare tra Bagheria e Palermo. A rivelarlo, collegato in videoconferenza, al processo sulla trattativa Stato-mafia, è il collaboratore di giustizia Giovanni Brusca, sentito come indagato di reato connesso.

Rispondendo alle domande del presidente della Corte d'assise d'Appello di Palermo Angelo Pellino, alla fine dell'esame, il pentito Brusca, 62 anni, l'uomo che azionò il telecomando nella strage di Capaci, ha ricordato che il boss mafioso Leoluca Bagarella, cognato del capomafia Salvatore Riina, "prima della strage di Capaci del 23 maggio 1992 si era trasferito a Mazara del Vallo" mentre era latitante.

"Sicuramente per tutto il periodo estivo - dice -. Poi Bagarella andò ad abitare nella casa di Gaetano Sangiorgi e ci andò per un mese e mezzo circa, a Santa Flavia". Il 17 settembre di quell'anno venne ucciso Ignazio Salvo, figura di spicco della Dc palermitana come esattore statale per la Regione siciliana insieme al cugino Nino Salvo, morto sei anni prima per un tumore. A ucciderlo fu un gruppo di fuoco guidato da Leoluca Bagarella e da Giovanni Brusca.

Rispondendo alle domande dei pg poi Brusca ha rivelato: "Dopo la sentenza definitiva del maxiprocesso Cosa nostra aveva intenzione di uccidere magistrati e politici. Dovevamo togliere di mezzo giudici come Falcone e Borsellino, ma anche politici come Martelli, Vizzini e Mannino". L'ex boss di San Giuseppe Jato ha parlato della "reazione di Cosa nostra" dopo la sentenza del maxi che decapitò i vertici della mafia. "Dopo la sentenza definitiva - spiega Brusca - serviva un futuro aggancio politico, e politici come Calogero Mannino dovevano essere tolti di mezzo perché, in parte, non aveva mantenuto gli impegni. Anche se di questo se ne occupava Totò Riina. Poi Mannino andava ucciso perché una volta non si mise a disposizione per un aggiustamento di un processo, quello per l'omicidio del capitano Basile".

Giovanni Brusca, soprannominato lo scannacristiani per la sua ferocia, alla domanda del pg come avesse appreso queste circostanze, ha poi replicato: "Queste cose le ho apprese da mio fratello, ma anche da Riina". "Il progetto omicidiario dell'onorevole Mannino fu poi stoppato, a me lo disse Salvatore Biondino. Con Riina non ne parlammo".

Parlando poi dell'omicidio del capitano Emanuele Basile, ucciso da cosa nostra a Monreale il 4 maggio 1980 durante la festa del paese, Giovanni Brusca spiega: "Ho partecipato alla preparazione del delitto - dice - ho preparato le armi, ho messo in contatto i soggetti. Ma dopo avere stabilito il da farsi mi hanno cacciato via perché potevo essere uno di quelli indiziati". E ricorda che "c'è stato il tentativo di un aggiustamento del processo, sia in primo grado che in secondo grado. Riina era particolarmente interessato all'aggiustamento del processo ma anche le famiglie di Ciaculli e Resuttana". Il pg Giuseppe Fici gli chiede poi del notaio Pietro Ferraro di Castelvetrano, Brusca dice: "Sapevo che era in ottimi rapporti con Calogero Mannino, so che si conoscevano ma non so quanto fosse profonda la confidenza". Alla domanda su quando venne fuori il nome di Calogero Mannino che "andava fatto fuori" dopo la sentenza del maxiprocesso, Giovanni Brusca dice: "Il suo nome non venne fatto durante la prima riunione. Il mandato di ucciderlo mi fu affidato da Salvatore Biondino, quindi  in sostanza da Riina".

Fonte: Adnkronos

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