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Cronaca

Il palermitano Alessio Bondì suonerà all'apertura del Roma Folk Fest

Intervista al giovane cantautore che sabato sera si esibirà nell'importante rassegna musicale della Capitale. Particolare la sua arte di scrivere i testi sia in siciliano che in inglese: "Uno è il mio dialetto, ma se capisci cosa dice Bob Dylan alla fine ti innamori della sua lingua"

Un giovane cantautore palermitano suonerà al concerto di apertura del Roma Folk Fest sabato 11 maggio, un’importante rassegna musicale ambita da tutti gli artisti emergenti. Si chiama Alessio Bondì, classe ’88, e la sua musica di voce e chitarra è un intreccio di folk, blues, pop e soul. Attualmente vive e si esibisce a Roma. L’anno scorso è stato finalista del premio De Andrè e ha vinto il sondaggio del quotidiano La Repubblica sul premio stesso. E’ in lizza fra chi verrà scelto per suonare allo Sziget Festival di agosto e basta “googlare” il suo nome per avere un’idea del successo che sta avendo. La sua caratteristica più peculiare è che scrive i suoi testi sia in inglese che in siciliano.

Due lingue apparentemente molto diverse, eppure nei tuoi concerti “funzionano”. Cosa ti ha spinto a fare questa scelta?
"Il siciliano e l’inglese mi piacciono tantissimo, e a entrambe le lingue sono legato profondamente. Il siciliano è il dialetto della mia terra, nonché forse il più famoso del mondo, che ha delle espressioni verbali potentissime. Paradossalmente a Palermo viene snobbato perché lo si identifica con le fasce più basse della popolazione, quando invece ha la forza di renderci riconoscibili ovunque, unici. La passione per l’inglese invece è nata al liceo, dai miei ascolti musicali che riguardavano prevalentemente artisti anglofoni. Volevo capire cosa dicevano, e se capisci cosa dice Bob Dylan finisce che ti innamori dell’inglese".

Che sensazione hai quando torni a Palermo e canti in siciliano?
"E’ una sensazione strana e bella. Io mi metto a nudo sia quando scrivo che quando canto, e il nostro dialetto ha la capacità di rivelarmi. Prima usavo solo l’inglese. Adesso anche mio padre e mia madre possono capire quello che dico, i miei vicini di casa e il pescivendolo all’angolo. Tutto questo mi restituisce a una matrice popolare".

Ho sentito che la tua formazione è stata teatrale. In che modo questo ti ha aiutato rispetto ad artisti che hanno studiato in conservatorio?
"Il teatro mi ha insegnato che se ho un emozione, mentre sono sul palco, ho il dovere di giocarmela, piuttosto che nasconderla. E il pubblico capisce quando lo faccio. Poi c’è il lavoro dell’attore su se stesso, grazie al quale ho imparato a essere un tutt’uno con la mia chitarra e la mia voce. Chi ha studiato musica ha una cassetta degli attrezzi da cui attingere quando compone, io devo “sfinniciarmi”. Ma la musica è una questione di orecchio, e quello non mi manca".

Quello dell’artista è il campo precario per antonomasia, anche in tempi di stabilità economica, figurarsi in quelli di crisi. Non ti spaventa non sapere dove ti porterà questo percorso?
"Il fatto è che non lo sa nessuno. Piuttosto che affannarmi per un lavoro che non mi piace, preferisco sudare per qualcosa che mi appassiona e che ritengo utile per me e per gli altri. E poi io credo che anche la crisi nelle difficoltà che comporta abbia un valore, che per la mia creatività è un vantaggio: quando sei sazio non hai idee brillanti".

Ultima domanda: Giuliano Ferrara ha esternato il suo infelice parere sull’essenza della Sicilia, a sua dire è la mafia. Secondo te?
"L’essenza della Sicilia non può essere ritrovata in una sola cosa, ma secondo me la più esplicativa è 'a pasta chi sarde a mare'".

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