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Venerdì, 19 Aprile 2024

I palermitani e il culto della morte: curiosità, tragedie e storie nascoste (II parte)

La massima espressione dell’intreccio tra la morte e la cultura palermitana sta nelle catacombe dei Cappuccini. Nate non come luogo di penitenza e riflessione, ma al contrario si trattava di una sfida alla morte: un tentativo di superarla

La massima espressione dell’intreccio tra la morte e la cultura palermitana sta in quel luogo unico al mondo, il luogo dove i morti incontravano i vivi. Le catacombe dei Cappuccini. E si, non c’è nessun altro posto al  mondo come questo. Non vi voglio raccontare la storia affascinante di questo luogo, la reperirete facilmente su internet o in qualche buon libro. E recentemente oggetto di approfonditi studi grazie anche all’antropologo siciliano Dario Piombino Mascali.

LEGGI LA PRIMA PARTE

Vi voglio parlare dello spirito di questo luogo. Contrariamente a quello che potete pensare le catacombe, oggi museo, non sono nate come luogo di penitenza e riflessione sulla morte. Al contrario si trattava di una sfida alla morte, un tentativo di superarla, come ben comprese Ippolito Pindemonte che le visitò nel 1779 scrivendo dei cadaveri dei cappuccini: Dopo cent’anni e più: Morte li guarda, E in tema par d’aver fallito i colpi (ecco spiegato pure perché c’è la vicina e trafficata via Pindemonte nelle vicinanze delle catacombe).

Sì, perché così il morto restava disponibile per sempre, con i parenti che per molti anni continuavano a prendersi cura di lui, magari pettinandolo, aggiustandogli i vestiti o riattacandogli qualche osso caduto con un po di fil di ferro o di spago. Anzi così combinata, la mummia del caro estinto, sarebbe pure “sopravvissuto” a coloro che lo seppellivano: l’immortalità nella morte, se considerate che ci sono corpi che stanno li da 500 anni! E ci sono almeno quattro tabù sulla morte e sui cadaveri che vengono infranti in questo luogo sacro, tabù comuni alla nostra cultura occidentale dal Medioevo in poi. I resti mortali degli uomini sono appartati dai vivi, nascosti ai loro occhi. Per ragioni di decenza (il non vedere il decadimento di chi abbiamo amato e non pensare a quello che toccherà anche a noi un giorno) e di igiene.

Le stesse mummie egiziane venivano separate dal mondo dei vivi con dei formidabili labirinti sotto le piramidi. I morti sono sempre separati dal mondo dei viventi, non solo fisicamente ma anche psicologicamente. Invece qui no, come dicevamo, la cura per il morto continuava con atti di ossequio e dialogo con il cadavere. Ancora, i cadaveri nella nostra tradizione non vengono mai appesi verticalmente, ma la posizione loro è sempre distesa, una posizione che comunque simboleggia quella del riposo eterno. Ai Cappuccini la maggior parte dei morti è appesa. Infine la divisione in gruppi anche dopo la morte: corridoio professionisti, donne, bambini, preti, vergini. Vietata dal cristianesimo, tale separazione nei nostri cimiteri (a proposito cimitero è una parola usata dai Cristiani che viene dal greco e grosso modo vuol dire dormitorio, visto il sonno che dormono i Cristiani in attesa della Resurrezione) di fatto non c’è. Insomma, per nulla luogo di penitenza e memento mori, qualcosa di quasi patologico, stava alle spalle di quello che oggi è solo un museo della morte. E che dire degli imbalsamatori? Due tra i più importanti imbalsamatori italiani sono stati palermitani. E sfido io, con questo retroterra culturale, quale miglior luogo al mondo per coltivare imbalsamatori in erba?

Giuseppe Tranchina, era nato a Palermo nel 1799 ed era riuscito a laurearsi molto giovane in medicina e poi in chirurgia. Era riuscito a mettere a punto un metodo di imbalsamazione che non prevedeva eviscerazione. Prendendo spunto probabilmente da una antica tecnica degli Egizi che utilizzavano preparati a base di arsenico, Tranchina faceva una iniezione intravascolare di una soluzione di arsenico subito dopo il decesso, che permetteva di avere una mummificazione perfetta. Le sue ricerche furono illustrate in un suo libro dal titolo eloquente: Ragguaglio su la esposizione de' cadaveri col nuovo suo metodo imbalsamati. La sua scienza non lo salvò però dall’epidemia di colera del 1837, che se lo portò via ancora molto giovane. L’altra grande figura di imbalsamatore fu quella di Alfredo Salafia. Nato a Palermo nel 1869, pur non avendo mai conseguito la laurea in medicina, mise a punto un metodo di conservazione dei cadaveri basato sull'iniezione di sostanze chimiche.

morte-2La perfetta conservazione dei corpi suscitò presto ammirazione ed interesse e così Salafia venne interpellato per restaurare il corpo di Francesco Crispi, imbalsamato a Napoli, ma giunto a Palermo in condizioni di conservazione precarie (oggi sepolto nella cripta a San Domenico). L’ottima opera di restauro lo rese famoso e gli permise di essere chiamato ancora per la preparazione di personaggi importanti, in modo tale che le loro salme potessero essere esposte per un lasso di tempo prolungato (tra questi il cardinale Celesia di Palermo,  l’editore Salvatore Biondo, padre dell’Andrea mecenate dell’omonimo teatro e del Kursaal biondo di Piazza Politeama,  e l’etnografo Giuseppe Pitrè). Salafia trascorse tutta la sua vita a Palermo, eccetto un breve periodo a New York. Nel 1909 infatti raggiunse  il nipote che aveva una ditta di pompe funebri a New York e cercò di proporre ad un mercato vasto e ricco questo suo metodo. Durante la sua permanenza a New York venne convocato per effettuare delle dimostrazioni presso l’Eclectic Medical College, tutte coronate da uno strepitoso successo.

Il metodo usato da Salafia aveva l’enorme merito di  dare l'illusione che il cadavere fosse un dormiente. E fu uno dei primi a non usare per l' imbalsamazione l' arsenico e il mercurio nocivi per gli studiosi che li maneggiavano ma sali di zinco. Fu lui a imbalsamare Rosalia Lombardo, la piccola esposta alle Catacombe dei Cappuccini e definita la più bella mummia del mondo. Destino strano quello di Salafia: dopo avere dedicato la vita a combattere la dissoluzione del corpo umano, è scomparso nel nulla. Infatti nel 2000, durante lo spurgo della sua tomba, nessun familiare si presentò e non sappiamo dove siano finiti i suoi resti mortali!  Una grande beffa del destino per uno come lui o una vendetta di coloro che non poterono godere di tranquillità, a causa sua, neanche dopo morti!

Parliamo dei funerali dei nobili e ricchi palermitani del 600 e 700. Grande magnificenza, come e meglio di una festa di matrimonio. Venivano organizzati i cosiddetti Trenoi, di memoria greca e romana. Uno stuolo di prezzolate, lamentatrici di professione (prefiche le chiamavano i latini, chincimorti in siciliano), ma anche monache, orfani, ragazzi pagati apposta per piangere, urlare, strapparsi i capelli e, addirittura, graffiarsi il viso, seguite da un corteo di mimi e danzatori. Grande spettacolo finale per il nobile. Doveva sbalordire tutti anche da morto, estremo segno di potenza goduta. Con grandi mangiate e spreco di denaro contro cui la chiesa si scagliava. Non solo perché invitava alla morigeratezza e all’equiibrio anche in questo caso, ma anche perché spesso la chiesa stessa era erede di tutto o buona parte dei beni del defunto. Beni che venivano sprecati stupidamente in feste da funerale e incomprensibili donativi fatti al popolino!

E cosa dire del lutto? Lugere in latino voleva dire piangere. In questo caso piangere per la perdita di una persona cara. La scelta del colore scuro per i funerali risale agli antichi Romani: alle cerimonie funebri anche i più ricchi indossavano la toga pulla, che poteva essere nera o grigia, comunque scura.  Ancora nel ‘800, nella zona di Modica,in occasione di un lutto vi era la tradizione di tingere di nero anche le porte e i mobili, addobbando dello stesso colore la camera mortuaria. Nonostante i divieti dei Vicerè, tale costume si protrasse fino a tutto l'Ottocento. In Sicilia, nel disperato tentativo di fare vedere agli altri che una perdita di una persona cara non poteva essere superata, il lutto poteva essere portato anche per tutta la vita. E comunque il lutto stretto durava non meno di 3 anni e 5 quello meno rigido. Solo nel recente passato agli uomini fu concesso il bottone, nero sulla giacca, come simbolo di penitenza. Altro mezzo per prolungare alla eternità personale la presenza dell’estinto.

Dunque, forse per questa sorta di estrema quotidianità con la Morte, vi è stato un tentativo particolarmente forte a Palermo di sconfiggere la morte. Ma non solo con la Fede e la tradizionale idea cristiana della resurrezione. In maniera laica, quasi prepotente si è tentato di renderla innocua, di addomesticarla, familiarizzando con lei da un lato, dall’altro prolungando all’infinito la memoria del caro estinto. 

Igor Gelarda 
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