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Quei bagni nell'Oreto: la piccola Senna può fare sognare ancora i palermitani

Da paradiso terrestre a discarica urbana, la storia di uno dei simboli della città. L’Oreto, da buon palermitano, ha dimostrato anche di sapersi incazzare e straripare, facendo anche notevoli danni...

Il fiume Oreto è il fiume dei palermitani. O meglio di Palermo, perché il rapporto con i palermitani, specialmente in questi ultimi decenni non è stato dei migliori. Se parliamo in termini assoluti e se lo confrontiamo con altri fiumi importanti il nostro Oreto è più che altro un torrente. Lungo una ventina di chilometri, nasce dal Monte Gibilmesi e sfocia a Sant’Erasmo. Come i fiumi importanti anche l’Oreto ha i suoi affluenti, tre addirittura (il Torrente dei Greci, il Vallone Piano di Maglio e il Vallone della Monaca ) e numerose sorgenti che lo alimentano. Oggi ha una portata che varia, a seconda della stagione, da 1.800 litri al secondo in inverno, a 30 litri al secondo in estate. Per fare un confronto, e capire che il nostro è in fondo, un fiumiciattolo, basti pensare che il Tevere ha una media annuale di 230.000 litri al secondo, ed il Po di un milione e mezzo di litri al secondo!

Tuttavia nel passato l’Oreto, da buon palermitano, ha dimostrato di sapersi incazzare e straripare, facendo anche notevoli danni. Basti pensare che ha distrutto alcuni dei ponti sotto il quale era “costretto” a passare: il Ponte di Corleone, distrutto durante uno straripamento dei primi del ‘700 (quello che attraversate oggi in auto passando da viale siciliana Regione è del 1962); il Ponte di Mare, a Sant’Erasmo, costruito a metà del 1500 e distrutto da uno straripamento del 1772. In zona Santa Maria di Gesù esiste ancora la via Ponte Rotto, che è il ricordo topografico di un ponte sull’Oreto, che passa a poche decine di metri da questa strada. Un ponte che univa la borgata di Santa Maria di Gesù al cimitero di Santo Spirito ma che, distrutto alla fine del ‘700, non venne più ricostruito, e rimase rotto per chissà quanto tempo! Mentre non possiamo non citare il Ponte dell’Ammiraglio, costruito in periodo normanno, tanto che in alcuni documenti tardo medievali il fiume Oreto venne chiamato fiume dell’Ammiraglio ed infine il ponte Oreto, costruito da Mussolini negli anni ’30.

Il primo documento storico che riporta il nome del fiume Oreto risale al quinto secolo dopo Cristo. In una operetta geografica compilativa di un tale Vibio Sequestre, che pur di fare studiare un po’ di geografia al figlio Vergiliano decise di scrivere personalmente un dizionarietto di fiumi, laghi e monti.  Del nostro fiume scrive: “Orethus, Panhormi, Siciliae”, schitto schitto ma preciso!. In realtà, circa seicento anni prima lo storico greco Polibio aveva raccontato la cruenta battaglia di Palermo, avvenuta nel 251 a.C. tra Romani e Cartaginesi. Lo storico greco  aveva scritto che la battaglia si era svolta vicino “il fiume che scorre davanti la città”, senza tuttavia citare il nome del nostro fiume.

Da dove venga la parola Oreto non è certo. Secondo lo storico domenicano del 1500 Tommaso Fazello, il nome Oreto è un grecismo: siccome il fiume nasce da una montagna, che in greco si dice Oros, ecco spiegato il suo nome. Antonino Mongitore scrisse a metà del Settecento che la parola Oreto nasce da “oro”, dato che “ nel suo letto, come scrivono più Autori, si sono ritrovati minuzzoli d' oro”. E a questo si dovrebbe collegare anche il termine conca d’oro.  In periodo islamico il fiume cambia completamente nome e viene chiamato “Wadi abbas”. Nel 972 il viaggiatore Ibn Hawqal, nato a Bagdad, scrive che “ a mezzogiorno del paese (scorre) un grande e grosso fiume che s’appella Wadi Abbas, sul quale son piantati di molti mulini”. Attenti al trucco e alle parole però: la parola Wadi/Uadi, da cui deriva il nostro termine guado, indica fiumi a carattere stagionale, tutt’altro che grandi e normalmente indica corsi d’acqua che si trovano in regioni desertiche su letti rocciosi o sabbiosi!  

Poco più di cento  anni dopo il geografo Idrisi, magrebino e musulmano sì, ma stipendiato dal re cristiano Ruggero dirà “fuor del lato meridionale del borgo scorre il fiume Abbas, fiume perenne, nel quale sono piantati tanti molini da bastare appieno al bisogno”. Invece Yaqut, un altro geografo che scrive in arabo nei primi del duecento ( si tratta in realtà di un greco divenuto schiavo degli islamici da piccolo) annota che le acque del Wadi al Abbas “ non sono utilizzate per irrigare i giardini, né sono utilizzate per altra utilità della città”. Dopo il nostro fiume 1300 torna ad essere chiamato con il suo vecchio nome romano: Oreto. Tutti quelli che hanno scritto di lui, sono concordi nel dire che era un fiume con una vegetazione ricchissima, delle acque limpide e salutari, che curavano le malattie, ed era un vero e proprio paradiso terrestre alle porte della città. Il Marchese di Villabianca, alla fine del ‘700, parla anche della pescosità delle acque dell’Oreto e della cacciagione che si trovava. Parla anche di centinaia di ruscelli che confluivano nell’Oreto, così come i viaggiatori e geografi islamici avevano parlato degli oltre 300 mulini sulle sue rive.

Ancora il Villabianca ci racconta di quando i palermitani, ancora senza una Mondello a quei tempi ancora acquitrino, durante le caldi estati erano soliti farsi il bagnetto proprio alla foce dell’Oreto, dove l’acqua dolce del fiume e quella salata del mare si mischiavano ed i cittadini potevano “temperare il naturale e morboso calore”. Certo a quei tempi non c’erano le foto, i selfie e le dirette e quindi nessuna immagine per noi di questi proto bagnanti palermitani! Del resto Pietro Dodderlein, professore di origini Dalmate ordinario di Zoologia  ed il suo assistente Raffaele Gelarda, mio trisnonno, pescarono degli storioni proprio alla foce dell’Oreto. Storioni alcuni lunghi quasi due metri e che si possono ancora ammirare al museo di storia naturale di Palermo. Pensate se avessimo impiantato aziende di lavorazione del caviale qui a Palermo. Già immagino l’etichetta: Caviale dell’Oreto, con il ponte Ammiraglio come logo!  E ancora ai primi dell’Ottocento Domenico Scinà parla di vigne, ulivi e aranceti lungo le rive dell’Oreto.

Fino agli anni Cinquanta il fiume era ancora abbastanza pulito, e la gente si andava ancora a fare il bagno li, ma dopo venne il buio. Cementificazione, scarichi abusivi, abbandono, rifiuti pericolosi hanno reso questo piccolo paradiso una cloaca a cielo a aperto, con l’abbandono progressivo ed inesorabile di tutto il suo habitat, pregiudicandone gli equilibri, la flora e la fauna. Chiara Quartarone, una geografa, ha detto, secondo me con una felice intuizione, che il fiume Oreto è, rispetto al paesaggio della città, perfettamente in antitesi con monte Pellegrino. Quest’ultimo per il suo carattere sacro e per la sua stessa natura gode di una sorta di rispetto della città. Mentre il fiume Oreto, quasi nascosto, è diventato “il luogo di tutti gli scarti dello sviluppo urbano, di tutto ciò che la città non vuol vedere”.

Oggi parte dell’opinione pubblica è tornata a guardare con interesse le vicende dell’Oreto, grazie anche ad associazioni come WWF, Lega ambiente e persone come il mio omonimo, Igor D’India, che hanno prepotentemente attirato l’attenzione di nuovo su questo fiume. Eppure provate ad immaginare se un giorno potessimo tornare a fare il bagno nel fiume, o a farne risalire  le acque dell’Oreto da piccole imbarcazioni. Che splendido paradiso tornerebbe ad essere per i palermitani e per i turisti che verrebbero a Palermo anche per la nostra piccola Senna. Un sogno tutt’altro che impossibile!

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